Matteo Renzi è stato una necessità, un’astuzia della ragione (teologico-)politica, un grimaldello soteriologico. Ha infilato qualche buona battaglia, poi l’ha disconosciuta, rinnegata, ma intanto ha prodotto, come il male può aprire la strada al bene, degli effetti. Non ci dimentichiamo la parziale scomparsa di una certa classe dirigente, l’aver costretto a inseguire su temi come le generazioni al comando, un certo svecchiamento degli azzimatissimi dirigenti, l’incenerimento di certi vetusti luoghi comuni e tic linguistici del politichese.

Certo, cambiare tutto per non cambiare niente, sostituire a quei compassati leader i propri amici, la propria claque. Sostituire al lessico furbo della politica politicante la ‘narrazione’ fighetta e vuota. E certo, fare una battaglia per il ricambio generazionale solo perché per accidente tu stesso ti trovi ad avere quarant’anni e vuoi contare. E ancora, certo, rinnovare le vecchie parole d’ordine della politica per inocularne di ancora più vecchie, incistandosi nello spazio tra il rifiuto o la rivisitazione critica della Terza Via e una certa voglia di nuovo-vecchio, ovvero una certa voglia di craxismo e di ‘modernizzazione‘.

Insomma, sembrava tanto nuovo e invece era solo Blair+Craxi(+Panariello).

E, certo, non ha forse solo dato un’accelerazione a quelle idee dei dirigenti post-comunisti che nel frattempo, con la lentezza non biblica (ché nella Bibbia le cose accadono talvolta con rapidità) ma chiesastica e opportunistica dicevano “In fondo aveva ragione Bettino e torto Enrico”?

“La ‘rottura sentimentale’ che in un’altra intervista […] rimproveravi a Renzi è davvero la chiave per comprendere ciò che sta accadendo a sinistra: salvo che si è già consumata da tempo, e precisamente da quando tu, con lucidità politica e coraggio personale, hai tentato invano di modernizzare la sinistra italiana (post)comunista”. Con queste parole Fabrizio Rondolino, ovvero di uno degli ex Lothar di D’Alema e poi renziano di ferro, malignamente quanto realisticamente dice una cosa, in fondo, che noi qui traduciamo così: che D’Alema avrebbe voluto essere il Craxi che Craxi non era mai riuscito a essere, ovvero il modernizzatore che sposta l’asse della sinistra al centro per conseguire politiche ‘riformiste’ improntate all’esaltazione dell’impresa, dell’individualismo, del liberalismo. Tutto quello che, pur maldestramente, Craxi avrebbe voluto fare se non fosse annegato nella cloaca della corruzione e della febbre arraffona che caratterizzava lui, il suo clan, il suo partito.

D’Alema è il paradigma, e poverino ci sembra pure ingiusto (ma a Renzi serviva il capro espiatorio).

Tuttavia, se Renzi è stato un male necessario della sinistra, adesso non si torni indietro. Ora che quei dirigenti, per contrastare Renzi, sono tornati a dire che “al centro non si vince” e che “la sinistra deve fare la sinistra”, facciano tesoro di questa saggezza e si ritirino in un dignitoso pensionamento, che gli garantirà senz’altro un posto da padri nobili (ma magari un tantino defilati) della sinistra. Insomma, non è che, uscito Renzi, di nuovo “avevamo ragione noi”? E non è che ci tocca ricominciare a vedere in giro le stesse facce, ad ascoltare le stesse idee, le stesse ricette di quelli che hanno governato con Monti, con Letta? Perché è vero che Renzi mica è andato via: è sempre lì, in agguato.

Tuttavia il problema non è il Renzi che c’è in Renzi, ma il Renzi che c’è in te.

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