“Da quando me ne sono andato dall’Italia sono stato insultato in ogni modo. Per aver tradito la patria, per aver ‘portato via’ le mie competenze. Mi sono sentito ripetere che, in fondo, avevo scelto la strada più semplice. Ma partire non è per niente facile”. Per Marco Giulio Camurri, programmatore informatico di 40 anni e grande appassionato di giochi di ruolo, il trasferimento è stato “un salto nel buio, dove ho lasciato indietro amici e parenti”. Ha lasciato Mantova nel 2009 con un biglietto di sola andata per Londra. Voleva fare quello che in Italia non gli riusciva: migliorare la sua qualità di vita e trovare modalità di lavoro più appaganti. Uscire dalla lotta per due euro in più in busta paga e stritolato dall’incertezza di non arrivare a fine mese.

Oggi lavora come programmatore per un’azienda che progetta prodotti ed esperienze digitali per grandi marchi e che lo tratta “con i guanti di velluto”: stipendio ottimo (e non paragonabile a quello italiano), serate al pub con i colleghi organizzate dalla società stessa una volta al mese, viaggi di gruppo in Europa una volta all’anno a spese della società per fare team building. Insomma un’azienda che si prende cura dei dipendenti e che, anche per questo, sta crescendo. In pochi anni i dipendenti sono raddoppiati, passando da 10 a 20. “Qui – spiega – sento che mettono davvero tantissimo impegno nel farci sentire apprezzati, nel creare occasioni sociali. E questa, devo dire, è una delle differenze più grandi che ho trovato, stipendi a parte, rispetto all’Italia dove ho lavorato per sei anni come programmatore”. Un settore, quello informatico, dove “gli stipendi sono molto più alti rispetto all’Italia, anche se qui a Londra c’è da fare i conti con un costo della vita molto più importante. Basti pensare che l’affitto costa 1400 euro al mese e l’asilo nido per mio figlio 1500. Quindi io e mia moglie dobbiamo stare attenti a non esagerare con le spese extra, ma, in ogni caso, riusciamo ad andare vacanze all’estero 4 o 5 volte all’anno. Quindi direi che non soffriamo troppo”. A Londra Marco ha trovato anche l’amore: una ragazza cinese naturalizzata neozelandese. Insieme hanno avuto un bimbo che oggi ha tre anni e tre passaporti: italiano, neozelandese e, in arrivo tra poco, anche inglese.

La vita londinese è stimolante, spiega, anche se quello che gli manca è “l’umanità che si respira in una piccola città come Mantova. Anche dopo 10 anni a Londra e 7 nella casa dove vivo ora, il sentimento di appartenenza a questo posto non è lo stesso che provo quando passeggio per le vie di Mantova”. E le incognite ora sono tutte legate alla Brexit. “Vivo a Londra da dieci anni – spiega – e questo sentimento antieuropeo l’ho visto nascere. Ha spaccato famiglie e amicizie e si preferisce non parlarne durante feste e cenoni di Natale. Ma sul posto di lavoro è sulla bocca di tutti, soprattutto ora che manca poco al 31 ottobre”. A Londra, dove un sesto della popolazione produce un terzo del Pil, le ragioni contro Brexit, secondo Marco, sono evidenti. La fuga di talenti europei, “che una volta venivano a guadagnare stipendi da convertire vantaggiosamente in euro prima che la sterlina crollasse”, è sotto gli occhi di tutti. “L’incertezza economica – prosegue Marco – si vede nelle cose di tutti i giorni, con prezzi che salgono e stipendi immobili. Supermercati e farmacie iniziano a mettere le mani avanti facendo sapere che a cavallo della data di Brexit potrebbero finire le scorte e contingentare le vendite. Il governo ha appena stanziato più di due miliardi di sterline anche per fare scorta di medicinali. Sembra di avanzare verso un’economia di guerra; facciamo tutti buon viso a cattivo gioco e cerchiamo di arrivare alla fatidica data come se niente fosse, ma quest’estate i britannici hanno assaggiato il vero costo di Brexit quando le loro vacanze in Europa e America sono costate il 20% in più che nel 2016”.

Chi fa una scelta come quella di Marco fa un salto nel buio. Lascia amici e parenti. Deve accettare, almeno all’inizio, di non essere brillante in una nuova lingua. Di essere immigrato, di non votare per il governo che detta le regole della tua vita. E deve mettere in conto che trovare un lavoro e farsi spazio sarà più difficile, perché “verrai guardato con gli occhi con cui un datore di lavoro in Italia guarda un rumeno, un croato o un marocchino che chiede lavoro”. Ma tornare, al momento, sembra un’ipotesi lontana. “Se potessi trasportare in Italia il mio attuale stile di vita e anche qualche soldo in più sul conto corrente, forse sì, tornerei. E mi piacerebbe veder crescere mio figlio facendo sport e attività che qui, contrariamente a quanto si possa pensare, sono più difficili da trovare. Ma la realtà è che con uno stipendio italiano rimane poco alla fine del mese e diventerebbe un problema quasi insormontabile anche solo andare a trovare i nostri famigliari in Nuova Zelanda e a Hong Kong”.

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“In Albania ho trovato subito lavoro. Qui tasse basse e poca burocrazia, ciò che manca in Italia. E’ un Paese che guarda al futuro”

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