Le telecomunicazioni diventano immediatamente terreno di confronto fra i due nuovi alleati di governo. Con il Pd che vuole dire la sua sullo sviluppo del 5G e dell’infrastruttura per la banda ultralarga. Non a caso, nel primo consiglio dei ministri, il governo Conte 2 è entrato a gamba tesa sul tema della nuova tecnologia wireless: a pochi giorni dalla scadenza del decreto legge sul golden power dello scorso 11 luglio, l’esecutivo ha infatti esercitato i poteri speciali su Linkem, Wind, Vodafone, Tim, Tre, Linkem e Fastweb dando, in alcuni casi, un via libera condizionato da alcune “prescrizioni” rispetto ai contratti di fornitura.

Il dettaglio delle “prescrizioni” è all’interno dei singoli decreti della presidenza del consiglio trasmessi agli operatori che dovranno inviare entro 60 giorni una relazione sulle misure adottate per adeguarsi alle richieste del governo. Tuttavia gli addetti ai lavori sono convinti che lo schema ricalcherà quello già applicato nel caso Fastweb-Samsung. Se così fosse, le “prescrizioni” andranno da misure come i test periodici sulla sicurezza della rete per escludere casi di spionaggio ed evitare attacchi all’infrastruttura fino all’obbligo di coinvolgere la divisione sicurezza prima di concludere accordi per le forniture con una particolare attenzione alle zone in prossimità di obiettivi sensibili.

Ma l’aspetto più rilevante della mossa del governo è la tempestività dell’intervento sul 5G nella prima seduta del consiglio dei ministri. Alla base della decisione c’è la possibilità concreta – quasi una certezza – che il decreto di riforma non venga convertito in legge nei termini previsti (il 9 settembre). La ragione? Tempi stretti, ma anche la volontà politica di ripensare complessivamente le misure che riguardano il settore delle telecomunicazioni. Fortemente voluto dall’ex sottosegretario leghista Giancarlo Giorgetti, il decreto di luglio che amplia il golden power non convince a pieno il Pd che vuole giocare un ruolo di primo piano su una questione che riguarda un mercato (media, web e telecom) da 17 miliardi l’anno, oltre che un tema particolarmente sensibile per gli alleati americani.

E’ noto infatti che gli Stati Uniti hanno da tempo ingaggiato una vera e propria guerra contro i produttori cinesi di apparati per le telecomunicazioni. Washington teme infatti che le infrastrutture cinesi possano essere una sorta di “cavallo di Troia” per acquisire informazioni e siano quindi pericolose per la sicurezza nazionale. Non a caso gli americani hanno da tempo tagliato fuori dal mercato le società cinesi Zte e Huawei che non possono più fornire apparecchiature di telecomunicazioni al governo statunitense.

Nonostante la posizione di Washington, che sul tema ha messo in allerta gli alleati, l’Italia ha continuato a collaborare attivamente con i due maggiori fornitori cinesi soprattutto a Roma con importanti sperimentazioni europee. Una vicenda che il governo americano non ha affatto apprezzato. Di qui, nel luglio scorso, su spinta leghista, l’ex ministro dello sviluppo economico Luigi Di Maio ha deciso di “allargare” il raggio d’azione del golden power anche alle infrastrutture per il 5G di cui Huawei e Zte sono fra i principali fornitori in Italia e nel mondo. In particolare, l’intervento del governo gialloverde ha allungato da 15 a 45 giorni dopo la notifica (10 giorni dopo la stipula del contratto) il tempo entro cui il governo è tenuto a comunicare l’eventuale veto. Il testo ha puntualizzato inoltre le sanzioni che si applicano anche a chi non rispetta le prescrizioni imposte dall’esecutivo nell’esercizio dei poteri speciali. Ha infine stabilito che le sanzioni possono arrivare “fino al doppio del valore dell’operazione e comunque non inferiore all’un per cento del medesimo valore”. Il decreto di luglio ha sancito insomma un contesto di regole ben preciso. Ma, con il cambio di governo, il Pd vuole rivedere il tutto. Cosa accadrà in futuro è difficile dirlo. Ma sin d’ora è evidente che le nuove frontiere delle telecomunicazioni sono una priorità per il nuovo governo.

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