Ci sono eventi in cui mi sembra di non avere capito niente di quanto successo. Il G7 di Biarritz è uno di questi: sento e leggo di un grandissimo successo, di unità d’intenti dei Grandi sull’Amazzonia, l’Iran, la guerra dei dazi e, naturalmente, la lotta contro le disuguaglianze (chi mai direbbe di volerle perpetrare?).

A me pare, invece, che non sia successo nulla di buono: che l’Amazzonia continui a bruciare e che il clone in peggio di Donald Trump, Jair Bolsonaro, continui a rifiutare l’aiuto internazionale e a insultare i leader che glielo offrono; che l’Iran rimanga un tema di preoccupazione, ma anche di divisione; che la guerra dei dazi resti aperta e che tutti i proclami della volontà di evitarla siano finora in contrasto con le decisioni prese dagli Usa e, per reazione, dalla Cina.

Poi, mi imbatto in una foto e tutto mi pare chiaro: il presidente magnate e il presidente francese Emmanuel Macron si danno la mano a fine vertice con piglio virile accentuato ed evidente sollievo: due “macho” soddisfatti di se stessi, molto contenti che sia finita.

L’americano ha recitato per 72 ore – è un record, da quando è presidente – la parte del bravo ragazzo persino educato (a fare rozzezze c’era l’altro suo clone, il premier britannico all’esordio Boris Johnson), parlando bene dei colleghi invece di distribuire epiteti e scortesie.

Il francese, che nella foto “fa l’Amerikano”, mascella volitiva e pollice in su, tira un sospiro di sollievo: è finita, tutto è andato bene, rispetto a Taormina 2017 e soprattutto a Charlevoix 2018 Trump non ha rotto la cristalleria; e adesso per almeno sette anni e forse otto, se torna la Russia, tocca ad altri organizzare ‘sta “fiera delle vanità”.

Un calcolo che deve avere fatto pure Trump: l’anno prossimo sarà lui l’anfitrione di turno e, quindi, gli conveniva creare i presupposti per un vertice senza ripicche, tanto più se intende portare i leader letteralmente “a casa sua”, nella tenuta di Mar-a-lago in Florida, farci venire pure Vladimir Putin, che manca dall’annessione della Crimea, e fare un figurone in vista delle presidenziali Usa 2020.

Dunque, i problemi non sono stati risolti e, in buona parte, neppure affrontati; ma tutto è filato liscio e tutti sono contenti. Del resto, chi s’aspettava che il G7 producesse una governance internazionale? Il consesso è da tempo inadeguato a tale scopo (e il G20 suo succedaneo non fa meglio). Biarritz resterà negli annali statistici, più che per le decisioni non prese e per il mezzo pasticcio iraniano combinato da Macron – l’arrivo non concordato del ministro degli Esteri di Teheran Javad Zarif -, per l’esordio di Johnson e il commiato del presidente del Consiglio italiano Giuseppe Conte, che s’è beato degli elogi che sempre toccano a chi lascia.

La parabola internazionale del governo giallo-verde e del suo premier è tutta racchiusa tra due G7: quello di Charlevoix, nel Quebec, in Canada, l’8 e 9 giugno 2018, dove Conte si presentò ai Grandi del mondo alla sua prima sortita pubblica – in assoluto – da presidente del Consiglio; e quello appena svoltosi a Biarritz, da sabato 24 a lunedì 26 agosto, dove s’è accomiatato, meteora fra leader tutti di lungo corso.

A Charlevoix, Conte se la cavò bene: l’obiettivo era fare una buona impressione ed evitare le gaffes da esordiente. Conte non conosceva nessuno e nessuno lo conosceva: rispetto a molti altri suoi predecessori, almeno lo sorreggeva l’inglese, che lui andava a migliorare alla New York University; e l’ordine del giorno lo aiutò.

I temi scelti dalla presidenza di turno canadese erano generici: crescita inclusiva, i lavori del futuro, l’uguaglianza di genere, la sicurezza, i cambiamenti climatici. Per cavarsela senza infamia, Conte offrì ai partner una sintesi del programma di governo illustrato in Parlamento.

L’inesperienza e l’essersi appena insediato gli valsero una benevola comprensione: il presidente Trump l’accostò nella passeggiata dopo la foto di famiglia; la cancelliera Angela Merkel, il presidente Macron e altri leader, nel dargli la mano e il benvenuto, lo invitarono a incontri bilaterali; tutti, mascherando la diffidenza verso il governo M5s/Lega, si dissero “impressionati” dal suo esordio e fiduciosi che l’Italia avrebbe mantenuto gli impegni assunti e realizzato gli obiettivi prospettati. Non è poi successo, ma, ovviamente, nessuno se n’è meravigliato – con l’Italia, è quasi sempre così.

Lui, dal canto suo, evitò di mettere un dito nell’occhio ai partner. E, alla fine, sorpresa!, chi uscì meno peggio, da un G7 con il finale convulso e il veleno nella coda – Trump mandò a monte tutti gli accordi, dopo essersene andato in anticipo per preparare l’incontro con Kim Jong-un a Singapore -, fu proprio il professore, che riuscì a barcamenarsi tra il presidente americano e i leader europei, si prese gli elogi del magnate (e un invito alla Casa Bianca) e non ruppe con i partner dell’Ue.

Conte e il premier giapponese Shenzo Abe – i giapponesi sono maestri nel defilarsi in queste circostanze – furono gli unici che tornarono a casa senza le ossa rotte da quel disastro diplomatico.

A Biarritz, il compito del premier dimissionario era, sulla carta, ed è stato più semplice: salutare, ringraziare, incamerare gli auspici di forse neppur troppo fantomatici “arrivederci”, incassare attestati di stima magari rituali, come quello che gli era arrivato alla vigilia da Donald Tusk, presidente, pure al passo d’addio, del Consiglio europeo, che ha detto d’avere “molto apprezzato” il lavoro fatto dal premier italiano, sia sul fronte interno che nel contesto internazionale.

Un Conte politicamente “azzerato” ha però reso palese l’inconsistenza di questa Italia sulla scena internazionale: una riprova è che i giorni della vigilia avevano visto un frenetico vortice di incontri bilaterali preparatori, da cui l’Italia era stata totalmente assente.

Fortuna che l’ordine del giorno del vertice di Biarritz non poneva all’Italia eccessivi problemi. E che la genericità dei temi in discussione, il timing delle riunioni e il numero dei partecipanti – numerosi gli invitati – garantivano la mancanza di decisioni e l’evanescenza delle conclusioni. Conte se l’è sfangata bene anche al commiato, non solo all’esordio.

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