Sarebbe meglio se Beppe Grillo, che ora tuona di salvare il Paese dai barbari, rientrasse nel sacello extralusso di Sant’Ilario e relative dependances, visto che prima di Matteo Salvini era stato proprio lui a strizzare l’occhio alla destra; è stato lui (con la preziosa consulenza della Casaleggio & Co.) ad assemblare un Movimento privo di valori distintivi fondanti per poter fungere da acchiappatutto grazie al mimetismo (in sintonia con le esperienze di successo del comico fondatore, intimamente destrorso); è stato lui a selezionare un personale volutamente naif per garantirsene la malleabilità.

Proprio perché ci sono i barbari alle porte della democrazia malandata, occorrerebbe un recupero di serietà; vanificato dai profili intellettuali (e morali) del personale politico che dovrebbe farle da scudo: il rieccolo Matteo Renzi, alla ricerca di un improbabile riciclo, lo sprovveduto Di Maio che inseguiva i gilets jaunes e si è votato i decreti sicurezza pur di non scontentare il capo dei barbari; il profilo da opaca nomenclatura piccista di Zingaretti, nuovo Laocoonte nelle spire dei renziani in Senato; le bande berlusconiane in rotta, alla ricerca di un nuovo datore di lavoro, che supplisca quello vecchio nel garantire loro faraonici standard di vita a fronte dell’assoluta sottomissione (non dimentichiamoci mai che tale truppa fu pronta a giurare “Ruby Rubacuori nipote di Mubarak” allo scampanellio del Capo).

Purtroppo di questa auspicabile serietà non se ne vede neppure l’ombra, accertato che l’attuale priorità per i vari segmenti della casta politica sembra quella del proprio posizionamento rispetto alle possibili elezioni anticipate. Se la Lega è in fregola di incassare il successo vaticinato dai sondaggi, ora che ha la sicurezza di tempistiche per un’andata al potere dopo che i previsti massacri sociali causati dalla legge finanziaria se li saranno presi in carico altri cirenei, i Cinquestelle vagolano alla ricerca di un riposizionamento elettorale purchessia, spendibile dopo l’autolesionistica dissipazione d’immagine durante l’anno e mezzo di esperienza ministeriale.

Ma i vari Alfonso Bonafede e altri dimaiesi si illudono che la proposta (pur apprezzabile) di sfoltire il numero dei parlamentari possa trovare consensi presso gli attuali esponenti delle altre forze politiche in forte dimagrimento (Fi e Pd), quando al già evidente rischio di non essere rieletti per contrazione dei suffragi si dovesse assommare il taglio dei posti disponibili. Quanto appare certo è che proprio per bloccare i barbari non si deve assolutamente accettare l’ukase salviniano del voto anticipato. Ma, per fare questo, va preso doverosamente (dolorosamente) atto che la situazione non dà spazio per realizzare operazioni strategiche di alto riformismo e ci si deve limitare a un programma minimo: organizzare una manovra che non sia “lacrime e sangue” a livello parossistico e creare un cordone sanitario attorno alle operazioni da regime, di una Lega che sta imbarcando tutte le peggiori facce da regime su piazza.

Magari facendo un po’ di profilassi linguistica: altro che “populismo salviniano” (come si vaneggia su qualche giornale o nei salottini tv postprandiali). Il populismo rettamente inteso è la critica delle politiche anti-popolari di un establishment che presidia il (proprio) privilegio. E la Lega oggi è il vero partito di questo mediocre establishment italico, nella sua versione bullesca. Dunque, contro il pericolo di una restaurazione che salda oscurantismo e plutocrazia, la nuova aggregazione già berlusconiana abbienti/impauriti, la madonna di Medjugorje e il bagnasciuga dolcevitaro, occorrerebbe trovare la modestia del buon senso. Dunque occorrerà appellarci ai due personaggi che sembrano un po’ più sensati e responsabili della media, per provare a sperare: il silenzioso presidente Sergio Mattarella e il neofita Giuseppe Conte, un po’ – mi si passi l’aggettivo – cacciaballe (curricula e “2019 meraviglioso”) ma che – se non altro – conosce l’uso delle maniere e delle posate.

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