Cinema

Charlie says, il male assoluto in un biopic sulle adepte del santone killer Charles Manson

Il film, in uscita in Italia il 22 agosto, recupera la strage a casa di Roman Polanski, ma prova a deviare l’attenzione dello spettatore su tre donne poi condannate all'ergastolo

di Davide Turrini

Charlie dice, Charlie afferma, Charlie aveva ragione. Charlie è Charles Manson. Mentre la reiterazione delle cieche asserzioni a raffica sul guru omicida sono dei componenti della Famiglia Manson. La setta grottescamente hippie che tra il ’67 e il ‘69 dapprima si separò dal mondo materiale della California già zeppa di controcultura, poi seminò morte e terrore uccidendo parecchie persone tra cui l’allora moglie di Roman Polanski, Sharon Tate.

Questo per dire che il film Charlie says, diretto da Mary Harron, in uscita in Italia il 22 agosto grazie a No.Mad, va sì a recuperare l’episodio di cronaca ancora sconvolgente dopo cinquant’anni (la strage a casa Polanski avvenne tra l’8 e il 9 agosto 1969 e la si intravede per pochi istanti in sottofinale), ma prova a deviare l’attenzione dello spettatore su un terzetto di adepte di Manson: Patricia Krenwinkler, Susan Atkins e soprattutto Leslie Van Houten, sorta di anello debole della catena. Tutte e tre condannate al carcere a vita per omicidio, tutte e tre a vario modo legate a Manson e alla sua “comune”.

Dicevamo della Van Houten che, a tragici conti fatti, è quella che raggiunse la setta quando Manson era già santone adorato, profeta anticonformista e maschio “ambito” (da tutte), ma che accoltellò il 9 agosto del ’69 la moglie del proprietario di un supermercato quando la donna probabilmente era già morta dopo le pugnalate inferte della Krewinkel. La Harron, su script di Guinevere Turner, e dal libro di memorie dell’assistente sociale che seguì le tre ragazze in carcere dopo gli omicidi, fa ruotare il racconto attorno all’impossibile redenzione della Van Houten (anche se una scappatoia a sorpresa alla Ufficiale e Gentiluomo la storia la lascia) qui interpretata da una vagamente goffa Hannah Murray (vista in Detroit della Bigelow).

L’incipit è da film dell’orrore. La quotidianità di una bevuta a collo dal frigorifero dopo l’efferatezza omicida con il sangue che cola sulle pareti della cucina. La banalità del male, avrebbe detto qualcuno. Ma non la banalità del cinema. Charlie says è un buon film, oscillante tra il biopic e il prison movie, condensato con formale compostezza in questa linea di demarcazione tra realtà e follia che ha fatto comunque tragicamente storia. Da una parte Leslie/Lulu che pur entusiasta e convinta della nuova vita nella setta, dove si cancella l’ego per formare un’unica coscienza di comunità, mette innocentemente in discussione molte affermazioni del suo santone; dall’altro il deragliamento graduale di Manson (interpretato dall’inglesissimo Matt Smith, non senza pendagli barbuti appiccicati con la colla) verso il terreno della pazzia. In mezzo c’è tanto LSD, accoppiamenti con nudità abbastanza visibili, le premesse di un discorso all’inizio dell’esperienza dell’isolamento pacificamente anticonformista, ma soprattutto un filo rosso musicale che conduce nell’antro del diabolico attraverso il Manson autore di brani musicali.

Chi conosce le premesse omicide della Manson Family ricorderà che Charlie aveva profetizzato una rivoluzione planetaria partendo dal brano dei Beatles, Helter Skelter, dove il quinto angelo sceso sulla terra sarebbe dovuto essere lui. Manson e la sua setta forzarono però la mano al presunto destino poetico, anche perché le velleità canterine del guru finirono nel nulla, come testimonianza dell’epoca ci insegna, nella comune dove si raccattava cibo gettato nella spazzatura e dove il gran capo si è era tirato a lucido per far colpo sul produttore musicale giunto lì per ascoltare le sue composizioni.

Spazio scenico collocato in un apparente vecchio set cinematografico (l’avete visto pressoché identico nel trailer di C’era una volta ad Hollywood di Tarantino, ma la Harron ha girato prima), Charlie Says evoca il male assoluto attraverso uno sguardo femminista dove non è tanto l’emancipazione delle protagoniste a far sobbalzare il racconto (l’assistente sociale ce la mette tutta ma la storia non si cambia e non viene volutamente cambiata oltre al pentimento reale di una delle tre ergastolane), quanto invece è il tratteggio rapido e febbrile di Manson, quindi del maschio violento e dominatore, a risultare causa di delirante violenza e oppressione della donna. Un crinale sottile su una condizione a specchio rispetto al male già percorso dalla Harron nella trasposizione dell’agire del psicopatico Patrick Bateman in American Psycho (2000), tratto dal monumentale romanzo di Bret Easton Ellis.

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