Cento anni fa, il 31 luglio 1919, nasceva Primo Levi, considerato soprattutto nel mondo anglosassone il più grande scrittore italiano del Novecento. Il suo libro-testimonianza sulla prigionia ad Auschwitz, Se questo è un uomo, apparso nel 1947 è tra i testi più tradotti al mondo, la testimonianza di un sopravvissuto ai lager nazisti nella quale per lunghi passaggi l’autore-testimone scompare, lasciando sotto i nostri occhi una cronaca di minuti, quanto tragici, eventi.

Nell’introduzione a Se questo è un uomo, inserita nell’edizione del 1958, si dice a proposito del libro: “Esso non è stato scritto allo scopo di formulare nuovi atti di accusa; potrà piuttosto fornire documenti per uno studio pacato di alcuni aspetti dell’animo umano”. Primo Levi diventa la nostra guida nell’abisso più profondo mai toccato dall’uomo. Quasi un’inchiesta su come persone normali arrivino a trasformarsi in crudeli aguzzini. Un quesito incessante che drammaticamente lega Se questo è un uomo con l’ultima opera del 1986, I sommersi e i salvati, un testamento in forma di riflessione estrema, un monito che ci mette in guardia su quanto sia facile, anche per un uomo normale, per ognuno di noi, scivolare sotto la pressione dell’ambiente circostante nella pratica della violenza inutile, eseguita al solo scopo di provare piacere nell’umiliare il proprio simile.

Di fronte all’orrore massimo, si sgretola anche il fondamento spirituale. Per Primo Levi non si può credere in Dio dopo Auschwitz, sono due poli, uno negatore dell’altro: “C’è Auschwitz, quindi non può esserci Dio”. Sempre ne I sommersi e i salvati, Levi ci racconta il cammino controverso della memoria, con gli aguzzini che si illudevano di cancellare le prove della loro violenza o, al più, altrettanto cinicamente, ritenevano che i superstiti non sarebbero stati creduti, come in parte accadde nei primi tempi.

Tra questi due imprescindibili libri ce n’è un terzo, La Tregua, uscito nel 1963, che è la storia del suo ritorno da Auschwitz attraverso un’Europa ridotta in macerie, un’odissea di quasi dieci mesi. L’incubo del “campo” è solo una tregua, non ce ne si libera più, neanche a casa: quella paura è penetrata nelle ossa e sarà parte dell’esistenza dei sopravvissuti.

I territori de La Tregua (le pianure tra la Russia e la Polonia) tornano nell’unico vero romanzo di Primo Levi, Se non ora, quando? del 1982. Il titolo cita un passo del Talmud ed è una storia di partigiani ebrei – che a migliaia hanno combattuto da soli o a fianco di russi e polacchi – costretti a misurarsi anche con il pregiudizio antisemita dei partigiani non ebrei: “sradicare un pregiudizio è doloroso come estrarre un nervo”. Il pregiudizio può produrre le conseguenze più nefaste, come quando si considera ogni straniero un nemico. “Per lo più questa convinzione giace in fondo agli animi come una infezione latente […] non sta all’origine di un sistema di pensiero. Ma quando questo avviene […] allora, al termine della catena, sta il lager”.

Nel proposito di studiare l’animo umano c’è l’essenza di Primo Levi: un chimico che riversa nella letteratura la sua indole di scienziato. Parole di una precisione chirurgica, mai una di troppo, che avvicinano la tecnica di scrittura di Primo Levi a Italo Calvino, altro autore attratto dalla scienza. Uno stile e uno studio costruiti però sulla propria pelle, come nei continui sforzi di capire i tedeschi, studiarne la cultura, tornare in Germania e ricevere anche l’impagabile riconoscimento dai primi lettori tedeschi di Se questo è un uomo, che gli chiedevano perdono e volevano che il suo libro fosse diffuso in Germania.

Non è solo sui temi della guerra e del lager che si misura la grandezza di Primo Levi. Il sistema periodico (1975) è un gioiello di 21 racconti, nel quale l’autore ripercorre momenti della sua vita associando ciascun episodio a un elemento chimico. Ne La chiave a stella (1978) Levi racconta la storia di un trasfertista montatore, mentre Storie naturali (1966) sono intriganti racconti di scienza e fantascienza.

Primo Levi ci ha infine lasciato poesie di rara intensità, come L’approdo, che immagina la quiete alla fine della vita:

Felice l’uomo che ha raggiunto il porto,
Che lascia dietro di sé mari e tempeste,
I cui sogni sono morti o mai nati,
E siede a bere all’osteria di Brema,
Presso al camino, ed ha buona pace.

Felice l’uomo come una fiamma spenta,
Felice l’uomo come sabbia d’estuario,
Che ha deposto il carico e si è tersa la fronte,
E riposa al margine del cammino.

Non teme né spera né aspetta,
Ma guarda fisso il sole che tramonta.

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