“In questa situazione è impossibile montare in sicurezza le strutture previste”. La nota con cui l’agenzia Trident Music ha cancellato la tappa ligure del Jova Beach Party, il tour estivo di Jovanotti sulle spiagge italiane, non è solo una doccia fredda per 15mila fan. È una spia che denuncia, meglio di ogni appello ambientalista, gli effetti del riscaldamento globale sulle nostre coste. Ad Albenga la spiaggia è quasi sparita: il problema però riguarda tutta Italia. Prima del caso-Jovanotti, Legambiente aveva lanciato l’allarme già nel 2015, con un dossier che documenta come il 42% delle nostre spiagge siano colpite dal fenomeno. In Molise è soggetta ad erosione il 91% della costa. Il resto del litorale adriatico non se la passa meglio, mentre in Basilicata il mare si mangia il 78% della battigia. La causa principale è il cemento, che ha ricoperto e trasformato “oltre il 55% delle aree costiere italiane”. Mentre l’unica soluzione sarebbe “liberare le spiagge”, “fare un passo indietro”: parola del geologo Giovanni De Falco, ricercatore al Cnr di Oristano. Che avverte: “Senza una politica lungimirante, rischiamo che entro la fine del secolo le pianure alluvionali costiere siano del tutto sommerse”.

Cancellata la data del concerto – Lo show di Jovanotti era previsto per sabato 27 luglio sull’arenile più esteso di Albenga, accanto alla foce del fiume Centa. Ma sette giorni prima, al momento di allestire il palco, i tecnici hanno trovato una sorpresa: la spiaggia si era ridotta. “I rilievi ortofotografici hanno evidenziato allo stato odierno una riduzione di 10/12 metri” rispetto alle misure effettuate a novembre, spiegano dalla produzione. Un fenomeno iniziato in primavera e aggravatosi con le mareggiate delle ultime settimane. Così, paradossalmente, è il forfait forzato di Jovanotti ad aver portato il tema dell’erosione delle spiagge al centro del dibattito pubblico, con buona pace degli avvertimenti che studiosi e attivisti lanciano da anni. Proprio al Savonese si riferisce uno degli studi più allarmanti in materia, pubblicato dall’università di Genova nel 2018. Se le cose non cambiano – dicono i ricercatori – entro il 2100 una mareggiata come quella che ha colpito la costa ligure lo scorso ottobre sarà in grado di sommergere metà del territorio comunale di Alassio, famoso centro turistico del Ponente.

A rischio la Riviera delle Palme – “La proiezione si riferisce al caso in cui le emissioni di CO2 in atmosfera continuino ad aumentare secondo i trend attuali”, spiega a ilfattoquotidiano.it il professor Giovanni Besio che ha firmato lo studio insieme ai colleghi del Dipartimento di ingegneria ambientale. “In quel caso, i modelli stimano che il livello medio del mar Ligure si innalzerebbe di oltre 120 centimetri”. Già con 70 centimetri in più le onde arriverebbero al “budello”, il caruggio antico che attraversa Alassio parallelamente al lungomare. Nello scenario peggiore l’acqua potrebbe toccare addirittura il palazzo del Comune, ora a più di 300 metri dalla battigia. “Abbiamo preso Alassio come modello perché è uno dei centri più bassi e schiacciati sul livello del mare, con un litorale fortemente antropizzato”, dice Besio. Ma il rischio incombe allo stesso modo sulle altre celebri località della Riviera delle Palme: Spotorno, Loano, Noli, Finale e, appunto, Albenga. Forse per questo il governatore Giovanni Toti si è affrettato a rassicurare i turisti dopo il caso-Jovanotti: “L’annullamento del concerto non può essere occasione per lanciare allarmismi ingiustificati sulla situazione delle spiagge della Liguria”, ha scritto. “Le spiagge della regione sono aperte e fruibili per residenti e turisti. Dal 2015 ad oggi – conclude – la Giunta ha raddoppiato i contributi per i ripascimenti, cioè i ripristini artificiali della sabbia erosa dalle mareggiate”.

L’erosione in Italia – Come detto, però, l’arretramento della costa è tutt’altro che un problema solo ligure. Anzi, secondo il dossier Spiagge indifese presentato da Legambiente nel 2015 – l’ultimo studio sistematico sul tema – la Liguria ha una delle percentuali di erosione più basse: in ritirata sono il 33% delle sue spiagge, 31 chilometri su 94. La situazione più critica è invece sulla breve costa del Molise, 22 chilometri di battigia, 20 dei quali (il 91%) soggetti a erosione. Ma è tutto il litorale adriatico, il più basso d’Italia, a non passarsela bene: il tasso di arretramento è del 54% nelle Marche, del 61% in Abruzzo e del 65% in Puglia, a fronte del 42% di media nazionale. Male anche la Basilicata (78%), mentre i valori più bassi si riscontrano in Veneto e in Friuli (18 e 13%). Tra le cause del fenomeno – oltre al cambiamento climatico – il dossier indica l’intensa urbanizzazione delle coste, la sparizione del sedimento naturale portato dai fiumi (dovuto all’abuso delle dighe e all’estrazione massiccia di sabbia e ghiaia dagli alvei), nonché gli stessi interventi di difesa dall’erosione, spesso controproducenti perché troppo invasivi (scogliere artificiali, barriere in cemento, pennelli). Ed è lo stesso proprietario della spiaggia di Albenga destinata al Jova Beach Party, Emanuele Podestà, ad ammettere – intervistato dal Corriere – di aver realizzato strutture di contenimento abusive: “Mi sono reso conto che sarebbe stato impossibile passare per le vie legali”, ha detto, “così ho fatto prolungare il molo a mie spese con dei massi nel punto più critico. E gli effetti sono stati positivi”.

La maledizione del cemento – Nel report di Legambiente si citano esempi di malagestione della costa in ogni parte d’Italia: “Oltre il 55% delle aree costiere italiane è stato trasformato dal cemento. L’analisi eseguita ha messo in evidenza una trasformazione irreversibile causata dall’urbanizzazione, con il record di Lazio e Abruzzo, dove si salva solo un terzo dei paesaggi mentre tutto il resto è oramai occupato da palazzi, ville, alberghi, porti”. Un altro aspetto “forse ancor più grave – si legge nel dossier – è l’entità delle trasformazioni avvenute dopo il 1985, anno dell’entrata in vigore del vincolo di inedificabilità entro i 300 metri dalla linea di costa e del sistema di pianificazione paesaggistica regionale previsto della cosiddetta ‘legge Galasso‘ del 1985. Nelle Regioni studiate, da allora ad oggi, malgrado vincoli e piani, sono stati cancellati e sostituiti dal cemento qualcosa come 160 chilometri di paesaggi costieri. Uno dei risultati più evidenti – prosegue il report di Legambiente – è la scomparsa quasi totale dei sistemi di dune, che hanno lasciato il posto a vie di comunicazione, centri residenziali e villaggi turistici. L’effetto di questi sconvolgimenti nell’ambiente costiero è stato il brusco aumento dei processi erosivi e la perdita di un ecosistema di alto valore ecologico, geomorfologico e paesistico”.

Tornare alla natura – Come reagire, allora? Secondo il geologo Giovanni De Falco, ricercatore al Cnr di Oristano e coautore di uno studio pubblicato sulla rivista Climate Change, la parola d’ordine è “rinaturalizzare”. “L’obiettivo dev’essere liberare le spiagge dall’antropizzazione selvaggia”, spiega. “L’uomo dovrebbe fare un passo indietro, lasciando che la linea di costa si determini e ridetermini in modo naturale, come succede da quando esiste il mondo. Più la costa è soffocata dal cemento, più si toglie resilienza alle spiagge. E il mare, senza la sua valvola di sfogo che è appunto spiaggia, può solo invadere i centri abitati con forza distruttiva. Per questo le difese dall’acqua devono essere più leggere possibile, privilegiando i ripascimenti e tutelando le dune nei rari tratti in cui esistono ancora. Se proprio è necessario costruire, meglio usare materiali leggeri e amovibili, come il legno. Senza una politica lungimirante e di ampio respiro, rischiamo che entro la fine del secolo le pianure alluvionali costiere siano del tutto sommerse”.

Twitter: @paolofrosina

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