Cultura

Fendi sfila al Colosseo e promette restauri per 2,5 milioni. Ma l’affare è tutto suo

Le sincronie, si sa, possono essere illuminanti: chissà se quando uno storico proverà a spiegare l’Italia dell’estate 2019 farà notare che nella stessa notte in cui si respingevano 46 disperati su un veliero senza acqua né viveri, al Colosseo (monumento pubblico di straordinario valore simbolico) andava in scena una sfilata di moda costata otto milioni di euro, con l’accompagnamento di una disgustosa mondanità da ‘Grande Bellezza’.

Il Codice dei Beni Culturali prevede che «I beni culturali non possono essere distrutti, deteriorati, danneggiati o adibiti ad usi non compatibili con il loro carattere storico o artistico oppure tali da recare pregiudizio alla loro conservazione». La parola chiave – «compatibili» – si intende solo alla luce dei paletti imposti, dallo stesso Codice, alla valorizzazione: è ‘compatibile’ ciò che esalta il significato storico e artistico del bene, aumentandone la conoscenza e la possibilità di fruizione culturale (non meramente commerciale); è viceversa incompatibile ciò che altera non solo la consistenza materiale, ma anche la natura e la missione culturale del bene culturale.

Che non si tratti solo di compatibilità materiale, ma anche per così dire funzionale – cioè relativa alla funzione del bene – lo dimostra un’altra occorrenza codicistica della categoria della ‘compatibilità’, laddove (all’articolo 120) ci si preoccupa di regolare le modalità con cui uno sponsor può legare il proprio marchio all’immagine di un bene culturale: «La promozione di cui al comma 1 avviene attraverso l’associazione del nome, del marchio, dell’immagine, dell’attività o del prodotto all’iniziativa oggetto del contributo, in forme compatibili con il carattere artistico o storico, l’aspetto e il decoro del bene culturale da tutelare o valorizzare, da stabilirsi con il contratto di sponsorizzazione».

Il caso della sfilata Fendi al Colosseo è un classico esempio di sponsorizzazione. Non c’entra nulla col mecenatismo (al contrario di ciò che si legge in questi giorni un po’ ovunque): un mecenate dona dei soldi in cambio di nulla (un fesso, secondo la mentalità italiana di oggi). Di nulla di materiale, intendo: puntando invece sulla legittimazione sociale e culturale. Uno sponsor, invece, fa un affare: investe dei soldi per guadagnarne molti di più. Fendi finanzia un restauro con 2 milioni e mezzo di euro (nulla, rispetto ai suoi bilanci e anche rispetto al budget della serata), ma l’aver potuto associare il suo marchio al Colosseo ha un valore commerciale incommensurabilmente più alto. Fendi guadagna infinitamente più di quanto sia disposta a dare.

(Bisogna, tra parentesi, notare che in questo caso non vale neanche l’argomento della ‘prostituzione per fame’: il Colosseo autonomo ha un sacco di soldi, che non sa nemmeno come spendere, e che non offre al resto del patrimonio ‘povero’. È uno dei paradossi della riforma Franceschini: come nella società, anche tra i beni culturali italiani ci sono ora intollerabili diseguaglianze…)

Insomma, Fendi usa un bene pubblico – uno straordinario bene comune come il Colosseo – per fare un sacco di soldi, lasciando a tutti noi le briciole. È un uso ‘compatibile’ di quel bene? Io credo di no. Non lo è letteralmente: perché, per giorni e giorni, una parte del Parco del Colosseo è stata inaccessibile ai visitatori, in una sostanziale privatizzazione del bene (stile cena di Renzi a Ponte Vecchio, per capirsi).

E non lo è per una ragione più profonda.

La Costituzione dice (art. 9) che il patrimonio culturale serve allo sviluppo della cultura, attraverso la ricerca. È compatibile con il carattere storico e artistico del Colosseo ciò che serve allo sviluppo della cultura. E la stessa Costituzione dice che il nostro paese si fonda su alcuni valori essenziali: il rispetto dei diritti umani, la solidarietà economica e politica, l’eguaglianza dei cittadini, il progresso spirituale della società. Perfino la proprietà privata è riconosciuta solo in quanto è di utilità sociale.

Ora, usare un bene comune per promuovere il lusso di pochi in un momento in cui la povertà è un problema reale per milioni di italiani a me pare ‘incompatibile’ con tutto questo sistema di valori. E mi pare che la cultura debba aiutarci a dare il giusto peso alle cose, a vagliare i nostri desideri e a saper resistere al martellante plagio della pubblicità. Il patrimonio culturale è come la scuola: ci si dovrebbe imparare che non importa molto se una borsa è di Fendi o no. E che quando una borsa Fendi costa come due mesi di stipendio di un archeologo dei Beni culturali che col suo lavoro salva il Colosseo, forse celebrare al Colosseo quella borsa è incompatibile.

Il Colosseo, come tutto il patrimonio culturale e come la scuola, dovrebbe essere un ‘luogo terzo’. Cioè un luogo libero dal mercato: uno dei pochi luoghi dove ancora si cresce come cittadini e non come clienti. In cui si impara una scala di valori che non è quella imposta dalla dittatura del mercato. Un luogo – come provavo a spiegare nel brano che è stato scelto per la maturità del 2019 – che offre una finestra su un passato diverso, e che distruggiamo se lo usiamo come ossessivo specchio dei ‘valori’ del nostro presente. Se, cioè, il Colosseo assomiglia alle vetrine di Via Condotti.

Fendi ha mille splendidi luoghi privati dove fare una sfilata. Ma prendersi anche il Colosseo è un atto di smaccata prepotenza: e il fatto che a tutti appaia una cosa normale, o perfino un atto di generosità, spiega in modo terribilmente eloquente l’Italia del 2019.