di Dodicianni

Sono buffe le cene di Natale. Sono buffi i parenti, le frasi di circostanza, i sorrisi finti e i calcetti sotto al tavolo. Eppure ho sempre amato la mia famiglia e i suoi controsensi, perché di famiglia pur sempre si tratta. L’ho amata anche quando, un Natale, ho sentito piovere come una secchiata in faccia la famosa goccia che ha fatto traboccare la mia cisterna di pazienza. “Sì però questi negri francamente potrebbero stare anche a casa loro”. Come una ferita, questa volta più di altre volte, quella parola urtava tremendamente la mia comfort zone. E’ stato lì che probabilmente è nato il seme della performance “Il peso delle parole”, che ho proposto ieri mattina a Padova; è nata dal mio non accettare più di abbassare uno sguardo ricolmo di imbarazzo. “Zio, penso che ti dovresti vergognare di quello che hai detto”.

Era successo, avevo trovato la forza di oppormi. Non un gesto da eroe, intendiamoci, ma piuttosto una piccola ribellione, la prima di una serie. Quante volte sentiamo dire da persone a noi vicine frasi d’odio? Odio gratuito, senza nessuna giustificazione oggettiva; oggi sono i migranti, ieri i terroni, domani gli omosessuali. Odio come perenne risposta al malessere e alla frustrazione quotidiana. Mi sono chiesto quindi quale potesse essere un modo per scardinare questo circolo vizioso, quale l’antidoto a conclusioni totalmente irrazionali?

Come spesso accade per chi si occupa di arte contemporanea, la risposta più efficace è anche la più semplice: la realtà. E’ molto facile scaricare qualsiasi tipo di giudizio e contenuto quando qualcosa ci è distante, fisicamente e socialmente, ma cosa succederebbe se la realtà piovesse fuori dal mio piccolo uscio una mattina qualsiasi? Sarei ancora disposto a ripetere quelle parole? Un pass falso da giornalista della fantomatica testata L’eco del Nord-Est, una camicia di buona fattura e mocassini ai piedi, sono bastati per rendermi un giornalista credibile, ed è così che ho iniziato la mia opera di “giornalismo urbano spiccio”. Regole semplicissime, una sola domanda, semplice e basilare: cosa ne pensa dei rifugiati? Apriti cielo. Decine di risposte ricolme di odio, razzismo, slogan triti e ritriti con radici nelle più classiche leggende metropolitane. “Vengono solo ragazzoni palestrati col cellulare”, “Per me possono anche annegare”, “Sanno il rischio che corrono, se annegano sono cavoli loro” ed altre amenità.

Ieri mattina alle luci dell’alba, davanti alla stazione dei treni di Padova, assieme all’associazione Avvocato di Strada, ho steso dodici finti cadaveri, coperti con dei teli bianchi e recintati ognuno con del nastro adesivo giallo e nero. Ai loro piedi, una targhetta con una di queste frasi e il nome e l’età di chi l’aveva pronunciata. Come se fossero parte di una moderna installazione museale a cielo aperto, le salme stavano lì, immobili ad aspettare i loro visitatori non paganti. Signori in giacca e cravatta, universitari, operai e gente comune, puntuali attorno alle otto meno un quarto restavano impietriti all’uscita dalla stazione. Quelli erano a tutti gli effetti dei cadaveri, non mancavano nemmeno le forze dell’ordine che come da proverbio son sempre le prime ad arrivare sulla scena del crimine. La situazione era surreale; come prima cosa, comunque, non potevano mancare i telefonini, le foto scattate a mezzo braccio e le stories su Instagram. Tutto lentissimamente. Tutto in silenzio.

In una società dove è permesso dire tutto, qual è il valore delle parole? Siamo in grado di renderci conto della gravità di alcune di esse? E badate bene, non vi è nessun giudizio politico in questo ragionamento, qui si va oltre; qui di parla di umanità, di un valore minimo, essenziale e quasi retorico, la vita umana. Non cambierò la mentalità di nessuna di quelle persone che in piedi oggi osservavano la mia installazione, nemmeno di una; non è per loro tutto questo. E’ per tutte quelle persone che magari dopo oggi si sentiranno un po’ meno sole in questa battaglia persa in partenza, e per tutti quelli che anche se il caldo è appena arrivato, pensano già al prossimo Natale, e alla prossima cena di famiglia. Buon Natale amici, e che sia un anno non nuovo, ma diverso.

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