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Dare a Cesare quel che è di Cesare

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Dare a Cesare quel che è di Cesare. I contratti a tempo indeterminati nel primo trimestre di quest’anno sono lievitati (+ 207 mila) mentre quelli a termine sono diminuiti (-90 mila). E’ un risultato parziale ma significativo del decreto dignità e, se vogliamo dirla tutta, il primo vero successo dei Cinquestelle. Magari modesto nelle cifre assolute ma certamente limpido dal punto di vista politico. Anche il reddito di cittadinanza, che nelle previsioni della vigilia, alcune molto interessate, doveva regalare uno stipendio ai nullafacenti, ai perdigiorno, insomma al sud sprecone e assistito, si sta rivelando uno strumento utile il cui accesso è abbastanza sorvegliato. Poi, di questi giorni, la misura annunciata, sempre da Di Maio, sull’introduzione del principio del salario minimo: nessun lavoratore al di sotto dei nove euro lordi l’ora.

Sono tre misure nitidamente di sinistra, sulle quali un partito di sinistra avrebbe dovuto mostrare tutto l’interesse a sostenerle, magari aggiornarle, arricchirle di altre opzioni.

Invece il silenzio, o quasi. Il salario minimo passa come l’ennesimo braccio di ferro dei Cinquestelle con la Lega; il reddito di cittadinanza quasi come merce di scambio con chi ha votato Cinquestelle, e il decreto dignità una misura dimenticata, persino dannosa perché il lavoro, ormai, secondo il pensiero prevalente si ottiene solo se precario.

Ci sono mille difetti e sono tantissime le responsabilità di Di Maio e dei suoi compagni per aver legittimato pratiche di potere e linguaggi non solo inappropriati ma anche violenti, specialmente da parte del suo alleato. Sono molte anche le misure governative sbagliate che i Cinquestelle stanno condividendo (la flat tax, per esempio).

Ma come è obbligatorio denunciare le cose che non vanno, le dichiarazioni fuori luogo, i provvedimenti dal sapore acre e minaccioso per le libertà e i diritti fondamentali (decreto Sicurezza bis), così andrebbero salvati e salutati con eguale onestà le decisioni a favore di chi è relegato in fondo alla fila, di chi è ultimo e non primo, di chi non ha un conto in banca e nemmeno il portafogli in tasca.

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