È di qualche giorno fa la notizia che Amazon ha vinto la sua battaglia contro otto governi dell’America del Sud che rivendicavano il diritto di usare il  dominio .amazon, in virtù dell’omonima Foresta Amazzonica, presente lungo i loro territori. Il dominio .amazon, quindi, è di Jeff Bezos. Lo ha stabilito, dopo anni di battaglie, con una pronuncia provvisoria l’Icann (Internet Corporation for Assigned Names and Numbers), l’ente che sovrintende all’assegnazione dei domini web, provocando le reazioni sdegnate di chi osserva la natura commerciale di questa decisione.

Di recente, durante l’importante evento Dig.eat che si è tenuto a Roma il 30 maggio presso il Teatro Eliseo, Giovanni Buttarelli, European Data Protection Supervisor, ha dichiarato che – considerata l’evoluzione delle tecnologie – l’Europa deve già iniziare a pensare di ridisegnare l’intero scenario normativo legato alla nostra “privacy”, perché spariranno i concetti di dato personale e di dato anonimo e si parlerà solo di informazione. Occorrerà, secondo Buttarelli, occuparsi di più dell’aspetto sociale, economico, collettivo. E non è possibile che il benessere, il tornaconto, il vantaggio sia solo nelle mani di tre o quattro operatori commerciali. Questo a prescindere dall’invasione sulla privacy: è un problema di potere.

Un potere, quindi, che è in grado ormai di schiacciare tutto. Anche le economie di otto Stati che reclamano un legittimo diritto a tutela di un territorio, come nel caso di Amazon. Un potere tentacolare che si infiltra anche nelle politiche economiche degli Stati nazionali, imponendo propri uomini come modello commerciale. E non è un caso che l’Italia abbia avuto per anni, Diego Piacentini, l’allora numero due di Amazon, seduto a occupare il posto di Commissario Straordinario per il Digitale. E si vocifera che ci sia voluto il suo “benestare” per far assegnare quel posto al pur ottimo e visionario Luca Attias.

I dati, anzi le informazioni, fanno gola a tutti, ma pochi, pochissimi le controllano davvero, in un processo di profilazione ossessivo e fuori controllo, dove le nostre esistenze digitali sono centrifugate. I nostri profili, i dati personali, i nostri gusti, le abitudini anche più riservate sono accessibili e questo ci rende ormai da tempo oggetti trasparenti e prede allettanti per immensi gruppi economici. Tutto questo è ovviamente pericolosissimo, proprio perché non è controllabile. Di certo non dai cittadini, che passivamente subiscono questo processo, né dagli Stati, che difficilmente riescono a contrapporsi a questa evoluzione. L’ultimo baluardo resta l’azione dell’Unione Europea, non indirizzata ovviamente a frenare la tecnologia e la sua portata rivoluzionaria, ma mirata a orientare tali tendenze in modo da non mettere in discussione i principi su cui abbiamo fondato le nostre radici, come la tutela del dato personale e l’integrità della memoria. Ormai esistiamo su Google, viviamo commercialmente su Amazon e interagiamo in modo ossessivamente personale e intimo su Facebook (e pochi altri social), consegnando un articolato patrimonio personale e informativo a pochissimi grandi player IT. E questo è il nuovo potere che è in grado di schiacciare le fragili economie di qualsiasi Stato a livello mondiale.

Anche il nostro Piano Triennale per l’informatica nella PA 2019-2021 stilato da AGID con la collaborazione del Team del Commissario Straordinario Attias purtroppo non ha operato scelte nette nel settore IT, con un atteggiamento tecnocratico che sembra accettare passivamente processi che forse appaiono ineluttabili, rischiando così di affidare di fatto l’intero patrimonio informativo del Paese proprio ai grandi player del mondo cloud. Pochissimi player già in grado di condizionare l’economia su scala mondiale rischiano di impadronirsi non solo delle nostre esistenze più intime, ma anche di tutti i dati di interi Stati.

In un possibile scenario futuro basteranno pochi accordi con governi autoritari per tenere sotto controllo un’intera cittadinanza mansueta e ammaestrata a colpi di abitudini social. Ed è questa in verità una realtà che stiamo già vivendo purtroppo. E il problema è che la stiamo vivendo passivamente, senza alcuna consapevolezza. E infatti la parola d’ordine è proprio questa: consapevolezza diffusa per svegliarci dal torpore in cui sembriamo essere imprigionati. Le parole d’ordine per provare a reagire sono e rimangono quindi: alfabetizzazione per i cittadini e formazione (anche specialistica e multidisciplinare) per dipendenti, manager e professionisti. Del resto, se i cittadini non conoscono i propri diritti (e non saranno in grado di proiettarli nei meandri rischiosi del digitale, disinteressandosi del problema che li riguarda) sarà ancora più difficile che qualcuno possa provare a guidare meglio la tecnologia rendendola sì pane per tutti, ma non con la conseguenza che il guadagno sia solo nelle mani di pochissimi in grado di giocare a palla con le nostre esistenze.

La partita è tutta qui. E deve anche essere chiaro che se un Piano Triennale per l’Informatica di uno Stato nazionale non si pone l’obiettivo di guardare anche e soprattutto alla sua economia digitale, indirizzando invece lo sguardo solo verso l’usabilità di una tecnologia, l’intero nostro tessuto produttivo rischia di cedere il passo ai colossi dell’economia digitale. Se non è già successo.

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