Forse del suo talento, che è una genialità oltre ogni rango, non se ne scrive come meriterebbe. È la mia modesta opinione. Davide Brullo è un poeta e uno scrittore contemporaneo, la sua poetica usa immagini folgoranti, visionarie, a volte sembrerebbero apocalittiche. Classe 1979, nasce a Milano, vive a Rimini. Ha scritto e pubblicato moltissimo, saggi ai limiti dell’eresia come quello per Melville (gennaio 2018), Pseudo-Paolo. Lettera di san Paolo apostolo a san Pietro. Come in tutte le sue opere niente è mai come sembra, un saggio non lo è soltanto, diventa persino un memoir di devastante crudezza, di indecente onestà.

Apocrifo e brutale, spesso, Davide Brullo restituisce un immaginario irreplicabile, tanto eccelso quanto assolutamente suo, connaturato a una genialità – dicevo sopra – che confina con le vette autistiche di un asceta. È lui stesso un mondo, un immaginario, di opera in opera. L’ultimo suo lavoro è stato pubblicato da Castelvecchi, Un alfabeto nella neve (novembre, 2018). È un epistolario, strumento di narrazione congeniale alla scrittura di Davide Brullo, alla sua parola, potente e straziante, non mistificatrice, in grado di corrompere, forse, confondere le nostre pigre o spaventatissime certezze, capace di lanciare uno sguardo oltre il nostro paravento umano, superba nell’intendere qualcosa di più. Il romanzo che è anche un epistolario, che è anche stavolta un memoir o un trattato di raffinatissima disquisizione estetica, è tutto concentrato sul ritrovamento (apocrifo) di un carteggio tra Boris Pasternak e Marina Cvetaeva. Pasternak, la Cvetaeva, la Achmatova, sono i riferimenti poetici – prossimi a un’ossessione di ideale nobiltà, di abnegazione, di sottomissione al mistero chiamato letteratura, poesia, scrittura – e tornano di frequente negli scritti di Davide Brullo.

Ci sono temi ossessivi che lo riguardano, la letteratura russa, i suoi “martiri”, la spiritualità che contiene una certa alba (letteraria) europea, la stessa spiritualità di Davide, antichissima e millenaria verrebbe da dire. Il suo paesaggio affascinante e desolato nello stesso tempo – di quel deserto che scarnifica (lui, Davide) fino a diventare audizione altissima, esercizio dello spirito, scomunica dal resto degli umani, locuzione intima – merita un’attenzione superiore. Il genio di quest’uomo, intellettuale generosissimo, merita un’attenzione superiore, sì. Non teme di straziarsi nell’affrontare tutte le volte il dogma della parola scritta, dentro i suoi abissi. Il tema del suicidio, il tabù, ad esempio. Indossato come un cilicio, colpa altrui (non lo è, tuttavia) da estinguere. Malgrado lo abbia già estinto il dolore. Lo abbia già fatto, il suo dolore. Non del tutto, eppure: la scrittura di Davide Brullo, per questa ragione, raggiunge l’imperitura evocazione di un passo scritturale, la suggestione apocalittica di un fatto eterno, non trascrivibile. C’è un brano, tratto da Un alfabeto nella neve, che mi commuove oltremodo, proprio perché dentro risuona la statura di quest’uomo, statura morale non da ultimo, e perché mi interroga il grande poeta, l’asceta, il perduto, l’irredimibile: “Scrivo per falsificare i ricordi, perché di me si abbia un’idea pessima – per facilitare l’opera di perdono di Dio”.

Mi sembrerebbe una irragionevole, irriguardosa distrazione lasciar così da una parte i versi conservati come pietre che bruciano. Eppure lui, Davide, ogni giorno, nella sua rivista on line, Pangea, non si risparmia in un lavoro di riscoperta o di scouting vero e proprio, di infiniti nomi di uomini e donne che hanno scritto, odiato, amato, al lume dello stesso terrore: la letteratura. Ogni giorno la sua rivista (che per molti è un giro di boa, se non oramai un dovere leggerla, persino un cult) reindirizza, indicizza il talento, erudisce, libera. Non conoscerlo, Davide Brullo e il suo straordinario, apocalittico, delirante, compassionevole paesaggio, è perdersi qualcosa.

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