“Hai fiducia nella Giustizia?”. Anna – la chiamerò così – mi guarda e sembra aspettare con ansia una risposta. Sulle ginocchia ha un fascicolo, referti medici del pronto soccorso, copie di denuncia delle violenze fisiche e psicologiche commesse dal compagno anche in presenza dei figli. Ha detto basta dopo nove anni di violenza. Le chiedo quali siano le sue preoccupazioni mentre mi risuona nella mente “il percorso di uscita dalla violenza è una corsa ad ostacoli”. Ostacoli che le donne superano se trovano la risposta adeguata nelle istituzioni, se la violenza è riconosciuta, se i loro figli sono tutelati. Anna ha paura di non essere creduta: “Mi ha sempre detto che mi avrebbe fatto passare per pazza e bugiarda e che mi toglierà i figli”. Le dico che la maggior parte delle donne che si è seduta sulla poltrona dove ora è seduta lei, ne è uscita. Molte hanno restaurato le loro vite. Ci vogliono doti d’artista per rimettere insieme i cocci e dare un senso a tutto, anche nei momenti peggiori.

Hai fiducia nella Giustizia?

Anna vuole un bicchier d’acqua e mentre mi alzo per andare a prenderlo penso alle “tempeste emotive” legate alla gelosia che attenuano la responsabilità di un assassino; alla sentenza di assoluzione di tre uomini accusati di stupro perché la vittima “era troppo mascolina”. Quella vergognosa sentenza ha fatto il giro del mondo come lo fece “la sentenza dei jeans”, che ha ispirato il Denim day contro la violenza alle donne, un evento celebrato  in molti Paesi. E penso a Marianna Manduca, uccisa a Palagonia nel  2007, dopo aver fatto ben dodici denunce. Inutilmente. La famiglia di Marianna aveva fatto causa allo Stato e ottenuto un risarcimento di 300mila euro per i tre orfani perché che la Procura di Caltagirone si era comportata con “negligenza inescusabile” e  non aveva adottato ‘’misure per neutralizzare l’uomo”. Ora la Corte d’Appello di Messina ha ribaltato la sentenza: “la sua morte non poteva essere evitata” e i tre figli di Marianna dovranno restituire i soldi.

Hai fiducia nella Giustizia?

D.i.Re – donne in rete contro la violenza  ha commentato così la sentenza della Corte d’Appello di Messina: “Nel giro di pochi giorni, una serie di sentenze dei tribunali italiani, ultima quella della Corte D’Appello di Messina che nega il riconoscimento della grave negligenza dei giudici e il risarcimento agli orfani di femminicidio di Marianna Manduca, confermano il quadro agghiacciante della violenza istituzionale che si accanisce contro le donne vittime di violenza, ed ora contro i loro figli rimasti orfani”.

Titti Carrano, avvocata ed ex presidente DiRe, aveva curato il ricorso alla Corte Europea dei diritti umani per il caso Talpis e nel 2017 aveva ottenuto la condanna dell’Italia. Dopo la sentenza di Messina che revoca il risarcimento danni per gli orfani di Marianna Manduca, commenta con amarezza: “Non è servita nemmeno la sentenza della Corte Europea sul caso Talpis, per la violazione della Convenzione di Istanbul che aveva riconosciuto che ‘i ritardi nel’apertura delle indagini dopo la denuncia della violenza e l’assoluta sottovalutazione del rischio hanno fatto sì che non venisse predisposta alcuna misura di protezione, col risultato che i comportamenti violenti dell’uomo sono continuati nella percezione di totale impunità e a rimanere ucciso è stato il figlio della vittima, mentre la madre, gravemente ferita, è poi riuscita a salvarsi’. Quanti uomini continuano a commettere violenze perché capiscono che possono restare impuniti e che nessuno si frapporrà tra loro e le donne che vogliono controllare in ogni modo, fino ad ucciderle?”. “La morte di Marianna Manduca era inevitabile”, davvero?

Lo scorso anno è uscito il libro della giudice Paola Di Nicola La mia parola contro la tua che parla dei pregiudizi e degli stereotipi che sono all’origine dei processi di rivittimizzazione delle donne nei tribunali. Oggi ha rilasciato un’intervista sulla Stampa nella quale dice: “La spia dello stereotipo nel processo è la narrazione. Quella della vittima e dell’imputato sono sullo stesso piano: ‘la mia parola contro la tua’. In fondo la narrazione dell’imputato è plausibile, conforme ad una lettura antica dei rapporti di forza uomo-donna. Ma la vittima è obbligata a dire la verità, l’imputato ha il diritto di mentire. Differenza enorme ma spesso dimenticata”.

Il colloquio con Anna si è concluso. E’ tardi e mentre chiudo il portone alle mie spalle, guardo Anna che si allontana. Le auguro di avere fiducia in sé stessa e doti d’artista. E le auguro di incontrare una Giustizia che tenga gli occhi bene aperti e che sappia ascoltare le sue parole.

Noi le staremo accanto.

@nadiesdaa

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