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L’Iran condanna a morte minorenni al momento del reato. Una prassi bandita ovunque

L’Iran condanna a morte minorenni al momento del reato. Una prassi bandita ovunque
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Mohammad Kalhori è stato arrestato nella provincia del Luristan nel dicembre 2014, quando aveva 15 anni, per aver accoltellato a morte un insegnante. Inizialmente è stato condannato a tre anni, in quanto il giudice ha riconosciuto che non aveva lo sviluppo mentale e la maturità per rendersi conto della gravità del reato commesso. Poi, in appello, è scattata la condanna a morte.

Barzan Nasrollahzadeh aveva 17 anni al momento dell’arresto, avvenuto nel maggio 2010 nella provincia del Kurdistan. Ha denunciato di essere stato tenuto in isolamento per mesi, senza contatti con l’esterno, e di essere stato torturato con le scariche elettriche. Condannato a morte nel 2013 per “atti ostili contro Dio” (definizione di reato che si riferisce ad azioni di terrorismo), ha recentemente perso il ricorso.

A Shayan Saeedpour mancavano due mesi al 18esimo compleanno quando, nell’agosto 2015, si è presentato spontaneamente a una stazione di polizia della provincia del Kurdistan per incolparsi di un omicidio commesso durante una rissa mentre era ubriaco. Nell’ottobre 2018 è stato condannato a morte e, per aver bevuto alcool, a 80 frustate.

Kalhori, Nasrollahzadeh e Saeedpour rischiano di essere i prossimi minorenni al momento del reato a essere messi a morte in Iran, dove questa prassi – bandita dal diritto internazionale – continua ad avere regolarmente luogo. In Iran dal 2005 sono stati messi a morte oltre 90 rei minorenni. Almeno altri 90 sono in attesa dell’esecuzione nei bracci della morte del Paese. A preoccupare ulteriormente è la tendenza delle autorità iraniane ad annunciare le esecuzioni con scarso anticipo, per ridurre al minimo le possibilità di suppliche delle famiglie o di appelli delle organizzazioni per i diritti umani.

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