Sull’ultima crisi, l’ennesima, scoppiata in questi giorni a Caracas, si è detto poco del ruolo attivo svolto dalla Spagna del primo ministro socialista Pedro Sánchez. Se l’Italia ha preferito defilarsi, lasciando il campo a sterili dichiarazioni – utili nei rapporti di forza tra i due partiti della coalizione di governo ma impercettibili in ambito internazionale -, Madrid ha dettato la linea dell’Unione europea.

Nelle riunioni tenutesi a Bruxelles, il premier Sánchez e il suo ministro degli Esteri Josep Borrell hanno spinto per un immediato riconoscimento di Juan Guaidó, il nuovo leader dell’opposizione venezuelana che si batte contro il regime di Nicolás Maduro. Di fronte alle perplessità di Paesi come la Grecia e l’Austria, la diplomazia iberica non si è scoraggiata. Ha intessuto un’intensa rete di contatti con le principali cancellerie del continente, ottenendo un testo finale che compendia un lavoro di cesello politico: riconoscimento di Guaidó se entro otto giorni il governo di Maduro non indice nuove elezioni politiche, consentendo stavolta il controllo degli osservatori internazionali (nelle ultime consultazioni Maduro rifiutò la presenza di rappresentanti dell’Ue).

La voce spagnola si è sentita nelle stanze della diplomazia, in un momento critico prima della stesura del testo conclusivo. Il ministro iberico con chiarezza aveva riferito che la Spagna ha lavorato molto per una leadership che unisse le opposizioni – il 35enne Guaidó ha assunto la presidenza dell’Assemblea nazionale da soli 20 giorni: non sarebbe quindi stata a rimorchio dell’Ue, anzi essa avrebbe trainato l’istituzione europea, considerati “gli enormi legami culturali e umani tra la Spagna e il Venezuela”.

Non mancano, però, nemmeno gli affari. Al largo del golfo del Venezuela la multinazionale Repsol controlla, con partecipazione dell’italiana Eni, il progetto Perla, uno dei maggiori campi offshore di gas latinoamericani. Il rapporto tra la compagnia spagnola e il governo di Maduro è altalenante: ai decreti presidenziali – giustificati dall’eccezionale crisi, tesi a bloccare merci e beni delle imprese straniere – seguono pagamenti di saldi con carichi di greggio, il normale bene di scambio usato dal governo nelle transazioni internazionali.

In Venezuela lo Stato è in agonia, le migliaia di cittadini che provano a istruire una pratica per conseguire una doppia cittadinanza – solitamente italiana o spagnola, utile per aprire le porte dell’Europa – fanno fatica a ottenere anche un semplice certificato all’anagrafe civile. Caracas è una città in guerra – alcuni la chiamano Carakistán, altri Caraquistán, non cambia la sostanza -, è la violenza a segnare i gesti quotidiani, con numeri da brivido: i morti ammazzati che si contano a Caracas in due giorni qualsiasi equivalgono al computo degli uccisi a Madrid durante un intero anno. Macerie morali coprono ogni speranza.

Anche l’economia reale è a pezzi: salari bassissimi fatti di poche manciate di dollari, beni basilari irreperibili, l’inflazione con i tassi più alti del mondo. Il tentativo di Maduro di contrastare la dilagante povertà aumentando per decreto il salario minimo (comunque ampiamente al di sotto dei 100 dollari) è servito a poco. Secondo uno studio comparato della Bbc sul rapporto tra salari minimi riconosciuti nei Paesi sudamericani e i diversi tassi di inflazione, un venezuelano con il suo salario minimo compra 2,3 scatolette di tonno, un colombiano ne acquista 93, un messicano 178 e un argentino 232.

Non va meglio sul fronte energetico: nel 2013 il Paese – tra i più ricchi al mondo sugli idrocarburi – produceva tre milioni di barili al giorno a 100 dollari al barile. Oggi produce appena un milione a meno di 60. Quando Hugo Chávez moriva, l’oro nero rendeva 300 milioni di petrodollari al giorno, oggi il valore si è ridotto di cinque volte.

Maduro è oramai un pugile all’angolo, isolato anche in Latinoamerica dove la Spagna ha ancora peso politico. Il Paese iberico è spesso invitato a partecipare ai lavori del grupo de Lima, organismo regionale composto da 12 Paesi, istituito nel 2017 per cercare soluzioni concrete alla crisi venezuelana. Maduro ha accusato la Spagna di aver messo il suo zampino nell’imposizione delle sanzioni europee dello scorso anno (embargo sulle armi), così pure per il conferimento da parte dell’Europarlamento del premio Sakharov all’opposizione al regime.

Sarà per questo che il presidente chavista ha riservato alla Spagna di Pedro Sánchez la reazione più dura dopo le prese di posizione internazionali sulla crisi politica interna, con tanto di invito al Capo dell’esecutivo iberico a convocare in casa propria elezioni politiche, visto che non uscì vincitore dalle urne.

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