Partecipando a un dibattito sul disastro del viadotto Polcevera – nell’ambito del Festival della Criminologia: Ponte Morandi, crimine pubblico e privato: racconto, divulgazione, riflessione – ho citato la vulgata antropologica dei “ponti del diavolo”, in contrasto con l’esegesi moderna che fa dei ponti un simbolo di unione e vicinanza, immortalato dai ponti inesistenti stampati sul retro di ogni banconota in euro. Come scrisse Anita SeppilliSacralità dell’acqua e sacrilegio dei ponti (Sellerio, 1977) – l’asservimento dei fiumi ha profonde implicazioni antropologiche: “Richiesero i ponti più antichi il presidio di sacrifici umani? L’interrogativo potrebbe sembrare del tutto arbitrario se non tenesse conto della persistenza di drammatiche leggende mantenutesi vive ancor oggi”.

In tutta Europa non mancano numerosissimi esemplari di “ponte del diavolo” e il crollo del viadotto progettato da Riccardo Morandi riecheggia l’esito di un patto faustiano tra Genova e il demonio, non tra Morandi e Satana. Morandi non aveva fatto altro che reinterpretare il modello statico del Forth Bridge di Fowler e Baker, in esercizio dal 1890.

Alla fine del dibattito, uno spettatore mi ha avvicinato: “Non è che il ponte nuovo sarà ancora un ponte del diavolo?”. Domanda indiscreta e maliziosa, perché nessuno può rispondere onestamente al quesito, da lasciare in eredità ai posteri. Solo loro potranno giudicare se questo patto si è finalmente esaurito. A mio parere, il fattore tempo sarebbe la variabile progettuale chiave della ricostruzione, da considerare con cura nella scelta della soluzione più idonea tra le molte proposte. Assieme all’Abc, l’analisi tra benefici e costi. Di gran moda negli organismi internazionali, è diventata regola di vita anche del nostro governo fin per giudicare opere già in cantiere. A maggior ragione per un’opera certamente imprevista, ma di nuova ideazione.

Parafrasando Giovanni Giolitti, le regole qualche volta si applicano, qualche volta si interpretano. E nel valutare costi e benefici, il valore del tempo è confrontabile con quello dell’appalto, come vari esperti di economia e logistica hanno fatto osservare in più occasioni di dibattito sul tema.

Sul tempo di ripristino del viadotto, i cittadini hanno assistito a danze simili al rito dei dervisci rotanti. Siamo passati da pochi mesi – prima cinque e poi nove, sparati a botta calda in un agosto torrido – al più prudente vaticinio del governatore ligure: “entro settembre inizio demolizione, entro novembre inizio cantiere” per una ricostruzione da fare in 11-15 mesi. Il 4 ottobre 2018 il sindaco-commissario affermò con coraggio che “le cose si possono fare in 12-16 mesi”. Quattro giorni dopo, da un’audizione parlamentare del Concessionario si seppe che la società aveva “studiato diverse possibili soluzioni” e, tra queste, “quella con i tempi più accelerati” prevedeva circa nove mesi tra demolizione e ricostruzione del viadotto. Poi, il sentimento del tempo si è poco a poco stemperato.

Durante le vacanze natalizie, abbiamo appreso che il tempo di ricostruzione va misurato con un numero complesso, composto da una parte immaginaria e da una parte reale. Secondo il Commissario c’è un tempo di attesa perché il ponte sia visibile, un tempo di attesa affinché sia percorribile. Anche l’occhio vuole la sua parte, ma basta una visione d’incomparabile bellezza a soddisfare i trasportatori europei? Decidere con coraggio di rinforzare il relitto esistente, ricostruendo la tratta crollata, avrebbe forse ridotto la parte reale del tempo di attesa, ma ci avrebbe privato del tutto di quella immaginaria. Alcuni tecnici avevano anche stimato che il restauro potesse costare assai meno delle offerte progettuali più ambiziose, salvando per di più un capolavoro infrastrutturale del 900 che, se capannone o pollaio, avrebbe goduto della tutela di qualche vincolo storico, architettonico o paesaggistico.

A cinque mesi dal disastro, la conferenza stampa in occasione della firma del contratto per la demolizione e ricostruzione del viadotto è stata l’evento più recente della saga. La parte reale del tempo di attesa è diventata il 15 aprile, giacché un cenno al primo di quel mese avrebbe difettato di buon gusto. Più della dilazione rispetto alle iniziali profezie. Mi hanno però colpito due argomenti, esposti con indiscutibile forza mediatica a favore del nuovo progetto da parte di committente e progettisti:

1. la durabilità millenaria dell’opera, da un lato;
2. la bellezza, dall’altro.

Il concetto di ciclo di vita applicato all’edilizia è piuttosto recente. In passato, le costruzioni erano fatte per essere eterne. Edifici e ponti massicci, ancora brillantemente in servizio, sembravano confermare la solidità di questa convinzione. Cent’anni fa, il cemento armato aprì nuove strade a ingegneri e architetti, ancora convinti che la fine della vita di una struttura fosse ancora un’ipotesi estrema, molto remota. Tuttavia, gli innumerevoli casi di deterioramento del calcestruzzo e corrosione di travi e trefoli di acciaio hanno confutato questa convinzione. E il concetto di durabilità è così entrato nella scatola degli attrezzi dei giovani tecnici: tutte le strutture vanno periodicamente monitorate e manutenute, se si vuole estenderne il più possibile la durata di esercizio, conservarne l’integrità e garantirne l’efficienza funzionale, come peraltro previsto dal Codice dei beni culturali e del paesaggio. Come scrisse Jorge Luis Borges, “l’uomo vive nel tempo, nella successione del tempo; e il magico animale nell’attualità, nell’eternità costante”.

Sulla bellezza c’è poco da dire. La soggettività prende il sopravvento, come aveva argutamente intuito Pino Daniele cantando O’ scarrafone. E il mio giudizio, privo del necessario bagaglio culturale di studi estetici, non potrebbe che essere epidermico oltre che irrilevante. “Il Bello è negli occhi di chi lo contempla” scrisse David Hume, e la bellezza delle opere dell’uomo è una qualità che solo il tempo sa stabilire, perché la bellezza si valuta a manufatto compiuto, non sui disegni o sui modellini in scala. Genova è stata fortemente penalizzata dagli ultimi 50 anni di costruzioni mediocri, talvolta imbarazzanti, se l’ultima opera saliente del dopoguerra che viene in mente è Forte Quezzi, il Biscione di Ina-Casa ideato da Luigi Carlo Daneri negli anni 50 e completato nel 1968. Oggi la bellezza è una speranza, ma sperare è comunque bello.

L’aderenza ai muri di sponda delle nuove pile del progetto appaltato, così come illustrata dai fotomontaggi riportati sui giornali, urta invece la sensibilità dell’idraulico. Tutto a norma di pianificazione di bacino e di Protezione civile, senza dubbio. Ma rizzare le pile in fregio all’alveo fluviale, murato da due strade come in una camicia di forza, ha il sapore antropologico della sfida sacrilega. Anche perché non riesco a dimenticare che il record italiano della massima pioggia caduta in 24 ore tuttora risiede saldamente a Bolzaneto, quattro chilometri a monte del ponte. Era l’ottobre del 1970.

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