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L’amica geniale. Quando studiare era un sogno e poi un bisogno

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Tra i meriti impareggiabili di chi ha scritto “L’amica geniale” e di chi ora l’ha riproposta alla platea infinitamente più vasta e popolare di RaiUno, è di aver illustrato come “studiare” ancor più che una scelta fosse un bisogno. E quel bisogno una necessità, una sorta di difesa civile. Lenù e Lila non sanno cos’è la borsa nera, cos’è la monarchia, il fascismo. E Lenù, napoletana di strada, vede il mare, il suo mare, nel giorno in cui mette piede al ginnasio. Studiare significa dunque difendersi dalle angherie, capire chi sei, dove vivi e la ragione della tua vita grama rispetto a quella ricca e sazia dei tuoi dirimpettai.

La povertà dell’Italia del primo dopoguerra, gli anni cinquanta e i primi sessanta, l’età della trama, segnano un abisso dai tempi nostri. L’alfabetizzazione di massa ha cambiato assetti sociali e stili di vita. Adesso però i laureati sono i nuovi poveri. Questo senso così attuale di inutilità dello studio, della fatica di conoscere (e del piacere di sapere, della forza che il sapere dà) ci sta facendo accettare l’idea che l’ignoranza, se di di massa, divenga ancor prima che una necessità (“tanto laurearsi non dà da mangiare”) una scelta e infine una virtù. La virtù dell’ignoranza che ci porta dritti verso l’età della contumelia, del malanimo, del pregiudizio.

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