“La musica non è questione di stile ma di sincerità” dice Bjork. E partendo da questa premessa voglio parlare di un cantautore che mi ha rapito le budella: Emanuele Galoni. Ben prima di questo nuovo Incontinenti alla deriva, che sarà presentato nella serata di sabato 1 dicembre, ho dovuto fare i conti col fatto che la scena e le luci non fossero tutte per lui: provando rabbia perché la musica di oggi è inflazionata dai cialtroni e dagli autotune, dagli apericena e dagli emuli degli ultimi con il pubblico che, ammutolito, confonde il valore delle canzoni con l’enfasi e la brio del tifo.

E così, queste 11 canzoni dico che andrebbero conservate per parlarne ai nostri figli quando tutto il resto sarà passato e non dovremo neanche far finta ce ne fregasse veramente qualcosa: Galoni è un fuoriclasse, lo dico per lui perché non riesco a esimermi dal farlo e perché certo non potrei dirlo di tanti e troppi altri. Me ne resi conto quando le rovine del Circolo degli Artisti erano ancora intatte e lui se ne stava là armato solo di chitarra e armonica riuscendo a sconfiggere, specie per i presenti, il freddo e l’umidità lancinanti. Incontinenti alla deriva ha la semplicità di Dylan, la struggente nostalgia di Damien Rice e la cupezza dei The National: 41 minuti di racconto fedele dell’Italietta che è, sognando al contempo quella che potrebbe trattenerci senza ripensamenti. A fare da sfondo a tutta l’opera gli ‘incontinenti’, quelli dal cuore malvagio: così come Dante li intendeva collocandoli sia all’inferno che al purgatorio. La critica della morbosità e del vizio accompagna, neanche a dirlo, l’inizio e la fine di un disco che è invece assai pensato nella sua innocenza e familiarità. L’interesse per il peccato e per il vizio, nel quale l’autore si rivede e inserisce senza volersi porre per questo al di sopra degli altri (Banksy, I sistemi binari), apre una riflessione profonda sulla quotidianità e l’omologazione del tempo: intesa e come incapacità di distinguere, gli uni dagli altri, questi anni duemila, e trattando il tema della distanza, che pure quando è breve finisce per dividere persone (negli affetti come negli intenti) invece vicine (In linea d’aria, Il sistema tolemaico).

Nel mezzo, la chitarra si presta a cantare anche la saggezza e la semplicità delle affermazioni dei nonni (L’America è una truffa) narrando l’idiosincrasia del sogno americano con gli occhi di chi la guerra l’aveva fatta e pure persa. E parlando di grandi vecchi, cade ancora a cecio la citazione del Monicelli-pensiero inserita a margine della (di poco) successiva Status quo, che critica la speranza inquadrandola come arma dei potenti e sinonimo di rassegnazione. Non basterebbe neanche il polline, citando ancora l’autore, ad ammazzare la bellezza e la crudeltà di questo racconto urbano così fedele e così puntuale, che è veramente difficile ricondurre a qualcosa di diverso dalla sua interezza: un po’ come decidessimo di utilizzare a mo di escamotage un aforisma moderno anziché considerare già l’idea una bestemmia vera e propria (Trattato monetario).  In ogni dove diremmo che altrove sta la felicità, canta sempre lui andando giù di modestia ormai qualche canzone fa (Per andare dove): mi sa invece, caro Emanuele, che quello di cui abbiamo bisogno ce lo abbiamo davanti agli occhi e, grazie a te, ancora una volta nelle orecchie. Me ne assumo volentieri la responsabilità.

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