“Le persone che vedeva dalla finestra si preoccupavano, lo sapeva, e temevano che qualcosa potesse improvvisamente far loro del male, di morire, allo stesso modo repentino, nel sonno o di cadere da cavallo e rompersi il collo, o che il treno sul quale viaggiavano uscisse dalle rotaie e cadesse in un burrone, o di affogare in un fiume profondo… Immaginava di cosa avesse paura la gente. David non aveva paura di niente, non del dolore, né della morte, ed era in vantaggio rispetto a tutti loro”.

Radio Wilimowski di Miljenko Jergović (traduzione di Elisa Copetti; Bottega Errante Edizioni), è la struggente storia di un rapporto tra un padre e un figlio all’alba della Seconda guerra mondiale. Un’inconsueta carovana percorre le strade della Croazia settentrionale alla ricerca di un albergo arroccato sulle montagne ma che guarda al mare. La strana processione è guidata dal professore polacco Tomasz Mieroszewski, che sta cercando un luogo adatto dove trascorrere del tempo con suo figlio, David, bambino affetto da una malattia incurabile. Un luogo dove montare la sua radio e poter ascoltare la partita Brasile-Polonia, incontro valevole per la qualificazione ai quarti di finale dei campionati del mondo di calcio che si stanno svolgendo in Francia.

Il centravanti brasiliano Leonidas scende scalzo sul terreno di gioco, incanta il pubblico con un campionario di prodezze mai viste. Il primo tempo si chiude sul 3 a 1, lasciando presagire una netta vittoria della squadra in maglia verde-oro. Tuttavia eroe dell’incontro sarà la mezzala Ernest Wilimowski, autore di un incredibile poker, la cui grande gara però non servirà a qualificare la sua Polonia che dopo i tempi supplementari soccomberà 6 a 5. Come nella realtà croata vissuta dal professore e da suo figlio David, quella del giocatore polacco è una storia di sconfitta. Come già nei suoi precedenti lavori, su tutti Le Marlboro di Sarajevo, Jergović in Radio Wilimowski miscela uno stile neorealista “balcanico” con sfumature leggere, quasi fiabesche e picaresche, alla Italo Calvino. Prendendo spunto da una storia minore nel marasma della Storia, percorrendo sentieri secondari e tratteggiando archetipi folcloristici della sua terra, l’autore riesce a condensare in un romanzo breve una storia complessa, tenera e a tratti solare, che dimostra l’immensa e spensierata forza di un bambino davanti ai grandi drammi del mondo adulto.

Un libro circolare Il popolo del diluvio, di Predrag Finci (traduzione di Alice Parmeggiani; Bottega Errante Edizioni): inizia a Sarajevo e si conclude a Sarajevo. C’è una fuga, quella dell’autore, professore universitario di filosofia, che sale su un autobus di notte, mentre la città è sotto l’assedio dei cetnici, e c’è il ritorno, nel 2002, quando la guerra è finita e i più fortunati possono tornare a casa e riflettere sulla perdita di identità e sui passaggi, ostici, per raggiungere una felicità duratura. Il popolo del diluvio è un testo complesso, a tratti estremo, intriso di ricordi, riflessioni, di testimonianze nostalgiche e dolorose e al contempo mai mancante – tra le righe – di speranza, di una vita migliore, che deve necessariamente fare i conti con i fantasmi del passato.

“Con loro si sentiva a suo agio. Eppure, perfino il compagno di scuola di suo padre, la cui fotografia ingiallita era appesa al muro, viveva ora a Melbourne. Ogni volta che in un paese ci sono disordini, se la cavano meglio coloro che vanno via, e stanno peggio quelli che potevano andarsene e non l’hanno fatto”.

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