Zen su ghiaccio sottile non è un film sul bullismo, né sull’omosessualità. È invece una profonda indagine sull’amore. La pellicola descrive i tormenti di un adolescente, Maia, che va scoprendo il suo corpo, la propria identità, destinata a patire tutti gli intoppi e le cadute di chi va prendendo confidenza con parti di personalità forzosamente represse.

Zen è il diario di una maturazione individuale ai tempi della periferia bigotta e violenta che narra la ferocia alla quale è sottoposta una personalità ancora confusa, enigma ingombrante per chi vive di stereotipi e verità preconfezionate in un Paese dell’Appenino emiliano. “Lesbica di merda”, senza fidanzato, Maia è un mistero che si aggira come un golem per il Paese, mettendo in crisi le rigide verità detenute da piccoli uomini abituati al dominio fallico, alla violenza fisica e verbale verso tutto ciò che sfugge al loro orizzonte, ben più limitato di quanto le vette dell’Appenino possano permettere. Per sopravvivere in una piccola città della montagna, fredda d’inverno e priva di quelle vie di fuga che una metropoli garantisce, servono mezzi adeguati. Una solida identità e una scelta sessuale chiara per il gruppo sociale. Maia non possiede né l’una né l’altra.

Impegnata nella muta del proprio essere, forse ipotecato da un padre prematuramente scomparso e una madre che non si arrende all’invecchiamento, ha solo l’armatura della giocatrice di hockey (paraspalle, conchiglia e ginocchiere) per proteggersi dalla violenza che la comunità le riserva. Una corazza che funziona solo all’interno del palaghiaccio, inutile fuori, dove è costretta a un isolamento nel rifugio di famiglia, o a una difesa permanente dallo scherno che trova la sua più esacerbata manifestazione quando impugna un’arma rivolgendola contro i bulli del paese che la sfottevano. Per impedirle di turbare la quiete paesana, Maia viene inseguita dai coetanei e legata a un cancello, come un cane. Il gesto della catena al collo è l’emblema della violenza di genere, rabbia verso qualcosa o qualcuno che non cammina nei solchi rassicuranti tracciati da aratri di provincia che hanno preceduto le gesta di questi ragazzi. È qualcosa di più della banale esibizione fallica del calci a un lampione della luce. Va oltre l’uso dell’insulto per denigrare una sessualità inquietante perché non ancora definita. Blocca, immobilizza un corpo vivo, le cui manifestazioni rischiano di minare le solide e fragilissime corazze con le quali i componenti di quel nucleo di giovani recitano la loro parte nel paese. Nel collo d’imbuto di un borgo di montagna le emozioni e le passioni sono filtrate e degradano in canali comuni, percorsi identitari che non permettono molte variazioni. Se infatti a Vanessa, carina ed etero, è concesso prendere le distanze dall’altro sesso dopo un rapporto col fidanzato, scintilla che apre nella sua mente la possibilità di una scelta omosessuale, il percorso per Maia è sbarrato e irto di cavalli di frisia.

Entrambe scelgono un periodo di riflessione nel rifugio della madre di Maia, metafora della loro elaborazione interiore, per placare i tormenti di un corpo che manda segnali dissonanti e che chiede di essere instradato. Ma mentre a Vanessa viene concessa la possibilità di una momentanea fuga dal cuore freddo della comunità, Maia è invece sempre e solo una “lesbica di merda”. Nessuno di quel gruppo può immaginare che in Vanessa, attratta da Maia, sia scaturito un pensiero divergente dal sentire comune. La certezza dei ruoli è talmente granitica che non sono contemplate deviazioni. Se si è allontanata dal fidanzato e dal gruppo, è perché ha trovato qualcuno che “la scopa meglio”. Come donna, dunque, non può essere del tutto pensante. Sono talmente banali e prevedibili questi stereotipi che, in alcuni casi, risultano facilmente aggirabili.

Quando Maia accetta il ruolo di maschio tra i maschi, sedendosi al tavolo coi ragazzi e accettando una sorta di ‘passatella’ senza alcool, ne riceve calore e riconoscimento.
Tuttavia Maia aspira a essere Zen, quel ragazzo che lei scorge allo specchio di casa. Una trasformazione che non può e non vuole passare per un sentiero offerto da altri, quello di essere un maschio come quel gruppo di ragazzi vorrebbe, banale come loro, uso a fare quello che si ritiene l’uomo debba fare. In questa storia sono donne le più feroci custodi dei costumi tradizionali, violente e minacciose verso quella coetanea che non riescono ad inquadrare come consimile. Vanessa bacia Maia, ormai già quasi divenuta Zen, ma viene respinta. Desiderosa di vendicarsi, priva di quel coraggio necessario a svelare la propria identità omosessuale, mostra la sua malvagità accusando Maia di averla segretata nel rifugio di famiglia. Per coprire la sua vigliaccheria innesca così la definitiva reazione violenta del paese che ghettizzerà ancora di più la protagonista. Ed è a questo punto che l’unico uomo che teneva una posizione salda, l’allenatore, vacilla e si piega alla forza del gruppo. Pur consapevole delle capacità sportive di Maia, le impone di rinunciare alla convocazione nella nazionale di hockey. Lo fa perché è un debole, uno come tutti. Potendo farne la pietra d’angolo della sua squadra, preferisce accodarsi a quel sentire comune che la vuole capro espiatorio dell’inelaborabile che alberga nei cuori degli abitanti del paese.

Apparentemente un hombre vertical, in realtà si dimostra prono al sentire comune che vuole Maia non solo lesbica ma anche colpevole di sequestro di persona. Questa venuta meno del maestro ha effetti dirompenti sulla ragazza. Quell’opaco insegnante non appare in grado di supplire alla figura paterna, motivo per cui decide di fare a meno del padre, definitivamente. Non c’è il lieto fine, la ricomposizione buonista che garantirebbe un posto certo anche nei luoghi più conservatori della città. Maia non cerca riconciliazioni con quel mondo feroce che l’ha emarginata. Porta a compimento il suo processo di trasformazione, divenendo ciò che è sempre stata: Zen.

Zen che ora è finalmente libero da quell’armatura e quella maschera che può, solo alla fine del film, gettare a terra mentre corre sui pattini. A testa alta.

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