Quando il ministro Salvini parla di ruspe non si può evitare l’impressione che lo pervada una gioia infantile, simile a un bambino che finalmente, armato di un’escavatrice giocattolo, possa abbattere mattoncini Lego, formiche nell’erba, costruzioni di sabbia. Con la sua innocua e virile connotazione agricolo-edile, la parola ruspa – diventata metafora, pars pro toto e, in tempo di social, hashtag – rimanda a manovali, contadini e altri pragmatici uomini della terra, oltre che a ometti già educati all’appartenenza di genere. Ma nella facilità con cui è entrata nel dibattito politico e mediatico si intravedono le macerie in cui il suo continuo utilizzo può ridurre la nostra convivenza civile, oscurando il fatto che si parla di esseri umani.

La risposta del ministro degli Interni all’abbandono sociale consiste in sgomberi e invii di ruspe scortate dalla polizia, così da poter giocare alla guerra contro i derelitti, i senza nulla, privati non solo di un riparo e delle poche cose che alleviano l’esistenza – un materasso, una giacca a vento – ma del sostegno di quei pochi volontari che ancora danno loro aiuto in vece dello Stato, come è stato ieri per il Baobab di Roma.

La ruspa ha il compito di frantumare, disperdere, caricare i detriti nella bocca mobile e scaricarli altrove. Portare le ruspe al Baobab, puntare i loro denti ferrati contro le baracche e gli averi di un centinaio di persone che avevano finalmente trovato un barlume di speranza, ha una finalità dimostrativa, tanto che un ministro in permanente campagna elettorale ha subito potuto scrivere: “In corso lo sgombero di Baobab a Roma. Zone franche, senza Stato e legalità, non sono più tollerate. L’avevamo promesso, lo stiamo facendo. E non è finita qui. Dalle parole ai fatti”. Non un fatto isolato, ma un programma di governo. “Ho pronta una democratica e pacifica ruspa!” scriveva il 13 agosto il ministro dell’Interno, postando il video di una borseggiatrice rom per annunciare un censimento “di questa brava gente”.

Ci vorrebbe Dario Fo per mostrare la forza tragicomica di un ministro che agita una ruspa come un bastone da feldmaresciallo. Forse suggerirebbe di istituire l’Onorificenza della ruspa, l’Ordine della ruspa e magari di apporre la ruspa come emblema svettante sulle insegne governative, simile all’aquila imperiale del Sacro Romano Impero o di ornare colletti e spalline delle divise che lo stesso ministro ama tanto indossare. Un giorno ci chiameremo il Paese delle ruspe e mostreremo un meraviglioso senso del comico con una sequenza di colpi di teatro simili a quello messo in atto oggi dal governo, senza alcuna volontà di mediazione, nominando presidente della Commissione diritti umani del Senato, al posto di Luigi Manconi, una senatrice leghista che con feroce coerenza da più di dieci anni chiede l’invio delle ruspe nei campi rom.

Solo l’8 novembre, Stefania Pucciarelli postava l’immagine di una ruspa che rade al suolo una baracca, commentando lapidaria: “Un altro passo avanti per stabilire la legalità”. È la stessa legalità di qui parla il ministro dell’Interno. Fare piazza pulita attorno agli ultimi, così da renderli invisibili, cancellarli. Una strategia simile a quella che ha portato, in pochi mesi, all’abbandono dei naufraghi in mare. Che importa che siano atti contrari al diritto internazionale? Nel Paese delle ruspe, dove si parla tanto di sicurezza, si sta dimenticando che la sicurezza più grande, per ogni cittadino, è il valore di protezione garantito a ciascun individuo – a ciascuno di noi – dall’impianto dei diritti, che stiamo rendendo fragile come le baracche nei campi degli sfollati.

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