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4 novembre, dopo cento anni non abbiamo ancora imparato la lezione

4 novembre, dopo cento anni non abbiamo ancora imparato la lezione
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Oggi a cento anni dalla fine della prima guerra mondiale, la data più importante del secolo, se volessimo essere onesti, la scelta migliore sarebbe tacere e ascoltare le nostre coscienze davanti all’immane tragedia. Infatti, gli avvenimenti che si sono succeduti a partire dalla fine di quel tragico conflitto a oggi sono, dolorosamente, la dimostrazione, che da quella carneficina abbiamo imparato ben poco. Anziché correggere gli errori e rettificare le strade, ci siamo adoperati (inconsapevolmente?) per aggravare ulteriormente gli aspetti negativi di una strage incomprensibile, e abbiamo finito per edificare cento anni di violenza, sui quali purtroppo ancor oggi si regge la nostra società. Altro che nazismo, comunismo, fascismo e amenità varie.

Va da sé che oggi l’unico atteggiamento sensato sarebbe quello della memoria riconoscente, della meditazione deferente davanti ai nostri nonni che diedero la loro vita, non tanto e non solo per vincere una guerra, per adempiere al loro dovere, ma animati dall’illusione della fiducia di contribuire al benessere generale. Innocenti portatori di valori morali e civili che noi abbiamo distrutto. Loro sì, strenui oppositori di quella violenza che furono chiamati a subire ancor prima che a praticare, sognatori di un mondo che non è mai esistito, portabandiera di quel poco di bene che ci è rimasto.

Con questo sentimento di amore e solo dal senso di dolore che pervade chiunque si avvicini a qualcuno dei molti memoriali della Grande guerra, oggi faremmo bene a riflettere più che sulla guerra, sui cento e passa anni di violenza, introdotti certamente da questa, ma pervicacemente sostenuti, sviluppati ed elaborati, in forme sempre più crudeli e ambigue a partire proprio da quel fatidico 4 novembre, dalla data in cui tutti pensavano sarebbe iniziata un’epoca di pace vera. Invece no.

Da allora la violenza totale e priva di regole promossa dalla guerra prese piede, si diffuse raggiunse ogni angolo della vita. Assunse le forme più ambigue e più nascoste. Si travestì in alcuni casi anche da legge, da Stato, da giustizia, da benessere generale. La forza economica, il progresso tecnologico, la stessa scienza al di là e al di fuori di ogni valore morale, di ogni limite etico divennero sempre più uno strumento per la distruzione del prossimo, anziché ritornare nel loro alveo naturale di fedeli ancelle del progresso umano. Gli uomini nella loro malvagità fecero il resto, per intorbidire le acque, per continuare a perseguire i loro indicibili interessi di parte, rendendo più difficile la comprensione della violenza, di volta in volta confusa e mescolata sotto complessi sistemi ideologici, belli di fuori, immutati di dentro. Altre guerre, altre stragi, eccidi e distruzioni di massa.

I milioni di caduti della prima guerra mondiale già lo sapevano. Noi se avessimo voluto, avremmo potuto impararlo, ma non l’abbiamo fatto. La morte ha senso solo e in quanto ci aiuta a capire il senso della vita, il suo valore, l’inutilità della violenza. Ma noi non l’abbiamo compreso. Per questo oggi faremmo bene a recarci in qualche cimitero, anche sparso nelle montagne, non per celebrazioni retoriche, ma per ascoltare la voce di tutti quei morti che si sono sacrificati per noi, nell’illusione di portarci verso un’epoca di maggiore benessere. E che oggi più che mai ci dicono e ci invitano a comprendere il senso vero di quelle morti, ad abbandonare la strada della violenza e della sopraffazione quotidiana, a evitare che la violenza di minoranze prepotenti e malvagie finisca per trascinare le deboli moltitudini.

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