Si fa presto a dire poesia, come se bastasse andare a capo qui e là per essere definito poeta. Senza essere né quello, né il celeberrimo “piccolo bambino che piange”, che Corazzini ci perdoni.

E così, nell’epoca più misera di sempre per la poesia e per i poeti, tutti vogliono diventare poeti, persino Flavia Vento e Oscar Farinetti. C’è a chi fa comodo, ovviamente: agli editori, che magari non investirebbero un copeco sulla pubblicazione di Villa, Cacciatore, Fortini o Sanguineti, ma che corrono entusiasti a sedersi alle tavole di Fico, tra culatelli e ricotte di capre (ovviamente bio), o si sdilinguiscono commossi ai borborigmi di Francesco Sole. E intanto vendono. Quale sarebbe la novità, direte voi. Al di là d’ogni retorica un editore è un imprenditore e il suo fine è il profitto, i libri sono merci e quelli che più vendono più si pubblicano. Una Liala in versi sciolti val bene cento Rosselli, ça va sans dire.

Nel frattempo, nell’epoca in cui la poesia sembra appassire, il poetico sembra essere dovunque, tutto ciò che ci commuove è poetico: un film, un romanzo, una serie televisiva, un quadro, un gol, un abito e via così. Da sostantivo che era, pare che la poesia si sia definitivamente trasformata in un attributo e se tutto può essere poetico allora perché non gli sgrammaticati vagiti di Francesco Sole o i pensierini che vanno a capo di Farinetti? Se poi a legittimarli stanno centinaia di migliaia di like, o partecipazioni azionarie che aprono paginate di quotidiani, il gioco sembra fatto. In una situazione del genere, però, persino l’Assalto alla poesia lanciato dal buon Arminio rischia di trasformarsi in pubblicità per loro. Ma forse è addirittura peggio di così, almeno a stare a un interessante, articolato e approfondito intervento di Mario De Santis.

De Santis prova ad analizzare quella parte della nostra poesia che sembra ispirarsi alla semplicità sabiana o alla comunicazione piana di certa Linea lombarda, il trobar leu contemporaneo: non ho letto alcuni dei libri italiani di cui De Santis parla, dunque mi asterrò da ogni giudizio al proposito, ma a me pare che il suo ragionamento, in linea generale, tenga. Se, sintetizzando brutalmente, cercare la semplicità portasse al semplicismo, allora la poesia sarebbe perduta: altro che rosa sopra l’abisso come diceva il buon Umberto, asserragliato nella sua Trieste.

De Santis, insomma, trova certa poesia affetta dalla stessa sindrome che ha trasformato molta prosa in uno storificio. Ciò che si vuole sono belle narrazioni, capaci di catturare il pubblico grazie a quel “personaggio-poeta”. Cose “interessanti” raccontate male (semplicisticamente), piccole poesie di pessimo gusto, anche perché, se fossero raccontate come si deve, quanti le leggerebbero? È il mondo dove non conta come si racconta, ma ciò di cui si racconta.

I dubbi di De Santis, insomma, hanno una sostanza brechtiana, quella secondo cui la semplicità (come il comunismo) è ciò che è difficile a farsi: “poetico” e poetese sono oggi a volte sinonimi, secondo lui. E io concordo. Dalle mie parti, nel campo opposto, quello della poesia sperimentale e dello spoken word, non va meglio e per evitare inutili polemiche italiote me ne vado all’estero, che da questo punto di vista tutto il mondo è villaggio (globale), si pensi a Rupi Kaur, che vale un Farinetti al cubo.

Sorvoliamo sul supposto fenomeno Kate Tempest, un’autrice globalmente insignificante, dai testi piatti e pieni di luoghi comuni (certo anticapitalisti, ma che differenza fa?) e che sul palco scandisce come un mediocre rapper. Il solo confronto con poeti come Murray Lachlan Young o Francesca Beard basterebbe a svelarne il bluff: non a caso è stata immediatamente pubblicata in Italia.

Stiamo ai fatti ultimi. Che ne sarà dello spoken word, della spoken music, della ricerca poetica di nuove forme, se persino il più prestigioso e grande (direi immenso) festival letterario del mondo, Hay Festival, in una delle sue decine di clonazioni internazionali, Hay Festival di Segovia, spaccia come i più importanti esponenti della poesia con musica e non solo spagnola due signori a confronto dei quali persino Francesco Sole rischia di meritare il lauro? S’ignorano ricerche autorevoli e decennali (penso a Eduard Escoffet, Yolanda Castaño, Ajo, Accidents Polipoetics, Josip Pedrals) e si promuovono autori assolutamente mediocri, rozzi, sostanzialmente inutili.

Guardate il video di uno di costoro e giudicate voi.

Suppongo che anche a Segovia il teatro sia stato pieno. In Italia si era già provveduto a tradurlo.

Ecco, questo è lo stato dell’arte. Che fare? Intanto, come ha ben pensato De Santis, iniziare a parlarne senza steccati e preconcetti di poetica, provare ad analizzare certe dinamiche distorte per tentare di disinnescarle e poi ovviamente continuare a comporre (scrivere, eseguire sul palco) nel modo giusto, cercando la profondità e la necessità delle forme, senza accontentarsi mai, continuare a sognare che la poesia possa dire il mondo in maniera inedita e sorprendente senza che il mondo se ne impossessi prima e la renda piatta, parafrasando Alberto Dubito, e continuare, come suggeriva uno dei maestri del Novecento, Elio Pagliarani: “come se/ non avesse senso pensare/ che s’appassisca il mare”. Anche nella notte in cui tutte le vacche sembrano nere.

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