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Autostrade, considerazioni a margine del surreale dibattito tra privatizzare/statizzare

Autostrade, considerazioni a margine del surreale dibattito tra privatizzare/statizzare
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All’inizio del Novecento, uno dei grandi intellettuali dell’epoca – Max Weber – scriveva che “la politica è un lento trapanare tavole dure”. Ossia un impegno che richiede costante dedizione declinata in pratiche dai tempi lunghi. Esattamente l’opposto delle attuali promesse, opera dei demagoghi che pullulano sotto i nostri cieli, con cui si garantisce che ogni problema da cui siamo afflitti può andare a soluzione con un semplice schiocco delle dita.

Dopo la catastrofe del viadotto Morandi, ha preso avvio un dibattito surreale, secondo cui la risposta definitiva consisterebbe nella semplice mossa di statalizzare la gestione della rete autostradale italiana, oggi affidata a una pattuglia di spregiudicati rentier; veri e propri “guardiani dei varchi”, dediti al taglieggiamento dei flussi fisici e virtuali affidati alle loro (amorevoli?) cure.

Insomma, il pendolo del dibattito politico si starebbe spostando dalla scelta del privatismo a quella del ritorno diretto dello Stato nelle faccende economiche. Fenomeno ricorrente, dopo la prevalenza della mano pubblica negli anni Cinquanta-Sessanta e la deregulation dei decenni seguenti. In conseguenza del passaggio dal New Deal e il Welfare State all’ideologia dello Stato Minimo nella svolta NeoLib.

Un fenomeno che ha investito l’intero mondo capitalistico e che Albert Hirschman analizzò nel suo celebre Felicità privata e felicità pubblica (il Mulino, 1995): «Le società occidentali sembrano condannate a lunghi periodi di privatizzazione nel corso dei quali sperimentano una depauperante ‘atrofia dei valori pubblici’, seguiti da esplosioni di ‘pubblico’ spasmodico e molto difficilmente costruttive». E ogni volta si proclamava l’avvento della panacea per tutte le nostre disfunzioni: la prevalenza dell’interesse collettivo nella gestione pubblica, l’avvento dell’efficienza razionale in quella privata. Anche perché l’ingenuità illusoria dei semplificatori dimentica le dinamiche reali insite in tali dispositivi: il management delle aziende controllate da uno Stato in altre faccende affaccendato, composto da individui sottoposti alla tentazione irresistibile di trarre il massimo vantaggio personale dalla propria rendita professionale; la governance privata che conferma la natura “impaziente” del capitale di riferimento, più adatto alla speculazione che all’investimento.

Infatti l’epopea italiana dello Stato imprenditore è legata al salvataggio delle grandi aziende private del primo dopoguerra, i cui azionisti non erano stati in grado di riconvertirle da industrie belliche a civili. Una vicenda in cui la visione politica fungeva da guida dello sviluppo aziendale. Basti per tutti la vicenda del Piano Sinigaglia Italsider, che assicurò lamiere di buona qualità e costi competitivi, in assenza delle quali il Miracolo economico ce lo saremmo scordati. Ma già negli anni Settanta era percepibile l’inquinamento del clientelarismo che sviliva le PpSs a bancomat delle cordate di potere e avrebbe portato alla catastrofe del decennio seguente. Da qui l’accodarsi della politica industriale alla svolta privatistica mondiale che si trasformò nella svendita dell’argenteria di famiglia, la messa all’incanto dell’azienda pubblica. Con gli effetti che ora abbiamo visto prodursi sotto il ponte Morandi.

Ma ogni intervento sugli assetti pubblici/privati non produrrà nessun risanamento ambientale se non accompagnato da un forte rilancio del ruolo di leadership della politica. Tanto nell’orientamento degli investimenti come nel controllo in corso d’opera e a consuntivo. Una condizione che dalle nostre parti non è assolutamente data e che rende ogni soluzione proposta un puro arrampicarsi sugli specchi. Nell’indifferenza delle migliori esperienze europee sotto forma di Piani Strategici di territorio, per individuare specializzazioni competitive coinvolgendo l’intera cittadinanza nelle scelte di futuro che la riguardano.

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