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Un solo giorno da migrante per Matteo Salvini

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Con gli occhi di un clochard. Così un titolo del Corriere della Sera sulla esperienza visiva di un uomo senza tetto e senza pane. Ha avuto in regalo dal fotografo del Papa una macchina fotografica per raccontare ciò che noi altri non vediamo.

Avremmo bisogno tutti di fare questa esperienza. Usare la fotografia per ritrarre la realtà in cui siamo immersi e che non vediamo più. Il pane che si butta, l’acqua che scorre inutilmente, il condomino scostumato, il conoscente litigioso, l’impiegato fannullone. Per quel che mi riguarda – se avessimo potuto – avrei voluto usare la macchina fotografia per ritrarre il volto dello studente super raccomandato, quel figlio di papà di Matera che ha ottenuto dall’università di Bari di poter dare in cinque giorni cinque esami fondamentali al corso di laurea in Giurisprudenza.  Trenta e poi trenta e poi due ventotto e un ventisette. E avrei voluto ritrarre il volto dei professori che si sono piegati per viltà a questo oltraggio e del rettore che è riuscito a dire che in teoria è possibile superare in un sol boccone e con successo queste prove. La laurea in tre settimane, week end esclusi!

Io vorrei fotografare i volti d’odio di quei parlamentari che usano i migranti per coprire le loro vergogne, per lanciare a noi affamati un bocconcino gustoso da addentare. Vorrei fotografare Giorgia Meloni mentre si fa il selfie, lei che da più di un decennio gode di una busta paga che supera i tredicimila euro al mese, per irridere Gad Lerner ritratto con la maglietta rossa e il rolex al polso.

Vorrei ritrarre gli invidiosi e gli accidiosi, coloro che non fanno, non sanno ma parlano, commentano, giudicano.

Vorrei ritrarre Matteo Salvini mentre, solo per finta, si imbarca per l’America in cerca di fortuna, come ha fatto suo nonno, o un suo pro zio, o il nonno del più caro suo amico.

Vorrei ritrarre la nostra memoria, fotografarla come se fosse un cofanetto di  pietre preziose in modo da leggere noi cosa abbiamo cosa abbiamo fatto per gli altri, cosa abbiamo detto degli altri. E poi, come un selfie tematico, cosa gli altri hanno detto e pensato e fatto per noi.

Avremmo così, tra le altre cose, l’esatta misura dell’ipocrisia, della viltà che ci prende quando invece di riflettere su ciò che dovremmo essere, vomitiamo parole rotolando nel fango, incolpando poi gli altri degli schizzi che ci lordano il volto. 

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