La poesia, a mio parere, non è che un modo di porre domande, di scovare le domande giuste che ci tengono stretti al nostro restare umani. In questo senso, prima di tutto in questo, la poesia “è rischio” come sostiene Augusto De Campos, ché il rischio vero è sempre nelle domande, raramente nelle risposte. La poesia è un modo di porre le domande necessarie prima di tutto sul linguaggio e poi sulla realtà in cui la lingua è immersa. L’interesse dei due volumi di cui vi parlo oggi sta precisamente in questo: nella loro capacità di porre domande, nel loro coraggio nell’assumersi il rischio di formularle, scavando nelle pieghe della lingua e del mondo. E non è poco.

Q. e l’allodola (Mursia ed.) di Vincenzo Mascolo è alla poesia (o meglio allo “stile”’) che pone le sue domande. Costruito su una serie d’interlocuzioni con la fantasmatica presenza di Raymond Queneau (e dei suoi Esercizi di stile), Q. è un testo bipartito in cui al dialogo con un’assenza si accoppia una sorta di lungo poema in cui le terzine dantesche mettono in campo l’allodola del titolo, o almeno l’attesa del suo canto. Il tutto affidato al ritmo sempre sicuro, battente, e volte ritmato in modo quasi ossessivo, di un endecasillabo che non è solo strumento stilistico ma allegoria di un poetare atrabiliare, che non rinuncia però (con comprensibile orgoglio) alle sue radici e che poi si muta, senza incepparsi, in una quasi prosa che si fa serrata nel suo riflettere, vagliare, porre in discussione la poesia stessa e la sua inutilità che oggi non riesce neanche più compiutamente a dirsi inutile.

E se la domanda essenziale è quella che riguarda ciò che Guido Oldani chiama la “cataratta dei poeti” – la loro incapacità di vedere con chiarezza quando l’io non riesce a essere integralmente altro da sé – questa domanda poi viene posta a e attraverso innumerevoli voci: da Ludovico Ariosto a Giacomo Leopardi, da Dante Alighieri a Francesco Petrarca, da Ludwig Wittgenstein a Giacomo Leopardi sino a Eugenio Montale, le citazioni aggallano appena nascoste dal flusso linguistico e da un cursus che integra, ma non nasconde mai del tutto. Il dialogo, insomma, non è solo con Q. ma con tutte le voci che emergono da un testo che quant’altri mai, da tempo, è “tessuto”, intreccio, incrocio e il valore della domanda radicale sul perché della poesia oggi, adesso, in questi luoghi e in questi tempi, sta proprio nel suo non essere l’afflato lirico di un io che si riflette e si riconosce nella sua retoricissima effusione, quanto nel suo legittimarsi come necessità collettiva, contraddizione condivisa, questione dirimente. La natura essenzialmente polifonica di questo che è certamente uno dei migliori libri pubblicati in questo 2018 è poi confermata dalla presenza della musica, dei suoi spartiti, inseriti come testi tra testi, che fanno da intermezzo “sonoro” tra le due parti dell’opera, a ricordarci che un aspetto dell’intertestualità è comunque l’inter-medialità.

La poesia e la guerra si parlano da sempre: la poesia parla la guerra e la guerra fagocita la poesia per esserne mondata o ricordata o denunciata nel dopo, quando al rumore si sostituiscono di nuovo quei suoni che chiamiamo parole. Era la guerra (ed. Internopoesia) di Fabio Chiusi è il tentativo (certamente riuscito) di interrogare la guerra e non solo quella combattuta dagli eserciti schierati (che è faccenda epica) ma anche quella che sembra sottostare a ogni relazione umana nello scontro continuo tra desideri e delusioni, nello spavento e nell’entusiasmo quotidiani, sorta di “principio mimetico” (alla René Girard) o di crudeltà come caratteristica della specie (alla de Sade) e che è faccenda, invece, eminentemente lirica.

La cerca, la guerra, Chiusi, la fiuta e la perimetra attraverso la rete di parole che le tesse intorno, sempre votato allo scacco che infine, in luogo suo, gli fa ritrovare soltanto lo squarcio della rete da cui essa è fuggita sottraendosi, una volta di più, alla risposta. Lo sgomento dell’io che si interroga e interroga è palese, parallelo ed equipollente all’aumento della densità del linguaggio ed è uno sgomento innanzi tutto linguistico e dunque definitivo se là dove fallisce il linguaggio si perde l’umanità: l’essere “vecchio per questo mondo e giovane / per il prossimo” scava, grazie al paradosso inverato dal testo, il baratro stesso in cui la lingua precipita, trascinando con sé anche chi la parla. Il dolore, che è segno della presenza tanto diffusa quanto impalpabile della guerra (e della morte che ne consegue) è tanto profondo quanto esposto, con un gesto di fragilità orgogliosa che risuona, per molti versi, di tonalità all’Amelia Rosselli. “Il dovere profondo di vagare alla cieca” cui accenna il testo sembra essere allora esso stesso l’allegoria di un’interrogazione continua, che il silenzio dell’interlocutore, non fa che potenziare e rendere acuminata. Leopardianamente, ma questo vale anche per Mascolo, la certezza che non si riceverà risposta non ci esime dalle domande, soprattutto dalla riflessione profonda che necessariamente precede ogni nuova domanda, se quella domanda è essenziale e necessaria.

Il poeta insomma, in entrambe queste opere come si diceva all’inizio, non è colui che dà risposte, quanto colui che pone le domande. È colui che ricorda a noi tutti il diritto di porle, le domande e soprattutto quello, inalienabile, di ricevere risposte con la libertà di dar loro credito o di porle nuovamente in dubbio, con nuove domande.

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