La stagione dell’orgoglio è ufficialmente cominciata. Sabato 19 maggio, a Bergamo, ha preso il via l’Onda Pride, che vedrà ben 29 manifestazioni in tutta Italia, dalle Alpi alla Sicilia. Ed è dalla Lombardia che voglio cominciare a raccontare, a partire da quella di oggi, una serie di storie: quelle di persone che scendono in piazza a ricordarci che odio e discriminazioni contro la comunità Lgbt dovrebbero essere relegate al passato. Ma la barbarie dell’omo-transfobia è purtroppo ancora largamente presente nella quotidianità del nostro Paese. Ragion per cui ha senso andare ai cortei, spogliarsi dell’ipocrisia e vestirsi della gioia di essere, semplicemente, persone autentiche.

Ed autentica è la storia di Andrea Simone, raccontata nel suo libro Due uomini e una culla (Golem Edizioni, 2017), che parla della sua famiglia e della nascita di sua figlia Anna. Un percorso non semplice il suo. Perché per una coppia gay che decide di avere figli è una strada in salita: sia per lo stigma sociale – ancora oggi l’omogenitorialità è considerata capriccio borghese dai soliti omofobi e da certo vetero-femminismo che ha deciso di sposare idee e linguaggio dell’estrema destra catto-fascista – sia per le difficoltà oggettive che una scelta del genere richiede.

Andrea e Gianni, suo marito, non si sono dati per vinti. “Se fossimo stati in un altro Paese” mi racconta “avremmo adottato, come dico nel libro. Ma in Italia non si può“. E così, hanno deciso di rivolgersi a una gestante. E mi parla del rapporto speciale con Christie, “la donna che ha messo al mondo Anna per noi”. È un sentimento di gratitudine, quello che li lega a lei. “Noi non siamo tornati negli Stati Uniti solo quando Anna è nata, ma ci siamo anche andati quattro mesi prima, a metà gravidanza, per vedere come stessero procedendo le cose”. Un percorso costruito insieme, come in una famiglia. Nuova, diversa. Più grande. Che fa nascere nuova vita.

Faccio notare a Simone che la classica critica tocca l’aspetto economico: una Gpa ha dei costi e ciò è visto come atto di lucro con cui si “comprano” le capacità riproduttive delle donne. “Christie non ha assolutamente scelto di essere una portatrice per ragioni economiche” mi risponde. “Lo ha fatto perché sentiva dentro di sé una vocazione e un bisogno di aiutare gli altri. Lavorava in un ufficio come capo della segreteria e guadagnava bene”. Negli Usa, infatti, laddove la Gpa è a pagamento, le gestanti devono essere economicamente indipendenti.

“Ancora oggi molti, stupiti, le chiedono se non sia doloroso separarsi da una bambina che ha portato dentro di sé per nove mesi” mi dice ancora, “ma lei risponde che si sente come una zia e questa separazione non le ha causato alcun tipo di problema”. Una storia, se vogliamo, già sentita anche nelle altre coppie di uomini che hanno avuto dei figli: il contatto con le gestanti resta. “Ci sentiamo con regolarità anche due volte al mese e l’abbiamo invitata più di una volta a venire a trovarci in Italia. Speriamo che lo faccia presto”.

La storia di Anna scorre, nel libro, come un’avventura romantica. I dubbi c’erano e riguardavano anche l’accoglienza che la bambina avrebbe avuto in un mondo che può essere ostile, per le persone Lgbt e per i loro figli: “Il coraggio necessario è venuto da Gianni” mi dice ancora. Quando gli ha detto che non fare qualcosa per il pregiudizio degli altri è la violenza più grande che possiamo fare a noi stessi. Una frase che si è trasformata in uno scatto d’orgoglio (in inglese pride, appunto) e, quindi, in coraggio. Quel coraggio che ha fatto sì che Anna venisse al mondo.

“Il mio non voleva essere un libro politico, ma molti mi dicono che senza volerlo l’ho fatto”, mi confessa a un certo punto, abbozzando un sorriso un po’ imbarazzato. E non poteva essere altrimenti, soprattutto quando descrive l’iter della legge Cirinnà, con la dolorosa questione delle stepchild adoption. Eppure, nemmeno questo sembra scalfire la forza su cui si tiene in piedi la sua storia: “La parola ‘papà‘ detta con amore ed entusiasmo da mia figlia per me vale più di mille leggi approvate”.

Il 30 giugno, a Milano – la città in cui Andrea vive con la sua famiglia – la comunità Lgbt sfilerà anche per questo. Perché la parola “papà” non sia solo una testimonianza d’amore, forte e insostituibile. Ma perché un giorno il nostro Paese riconosca in essa un ventaglio di possibilità, come quelle che hanno permesso ad Anna di nascere. E non il muro identitario ed escludente che qualcuno vuole costruire attorno al termine “famiglia”.

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