Amava la boxe e ha – metaforicamente – fatto a pugni con parecchi pezzi grossi dell’economia e della politica italiana, da Gianni Agnelli a Ciriaco De Mita, da Carlo Donat Cattin a Enzo Ferrari. L’occasione per ripensare – con tanto rispetto e molta nostalgia – a Giuseppe Luraghi, manager e intellettuale che ha lasciato un segno indelebile nella storia dell’auto italiana, è la ri-pubblicazione aggiornata e arricchita di nuovi contributi e immagini, del bel libro di Rinaldo Gianola: “Luraghi. L’uomo che inventò la Giulietta”, edito da Book Time. La storia di un milanese, duro, calvinista, animato da un senso dell’etica che oggi non ci potremmo neppure immaginare.

Dice Gianola: “Con Cuccia, Mattei, Sinigaglia e Mattioli, Luraghi fa parte di quel gruppo di manager/imprenditori che ha rimesso in piedi l’Italia nel dopoguerra e, con ruoli e stili diversi, ha contribuito a farla diventare una delle grandi potenze del mondo industriale. Luraghi ha lavorato per l’industria privata (per vent’anni alla Pirelli, dove entra nel 1930, a 25 anni) e pubblica (una vita in Finmeccanica e all’Alfa Romeo). Non ha avuto paura di scontrarsi con azionisti e uomini politici e quando ha abbandonato una società la sua uscita di scena non è stata mai… diplomatica.

Nell’enorme mole di documenti ufficiali, privati e appunti personali che la famiglia ha messo a disposizione di Gianola c’è la possibilità di ricostruire dinamiche ed eventi che hanno lasciato tracce decisive nella storia economica tricolore. Il caso più importante sotto il profilo industriale, sociale e politico è senz’altro quello che riguarda “lo sbarco al Sud”. Luraghi, da capo dell’Alfa Romeo all’epoca controllata dall’Iri, spingeva per costruire uno stabilimento d’eccellenza nel Meridione, per creare posti di lavoro qualificati diretti e indiretti (con l’indotto) e contrastare l’emigrazione al Nord che aveva reso drammatica la situazione delle periferie di molte città settentrionali, a cominciare da Torino. La Fiat non lo voleva, quell’impianto in grado di farle concorrenza, e l’avvocato Agnelli disse in Parlamento che proprio non ci pensava a costruire automobili al Sud. Cambiò idea in pochi mesi. E più tardi, mentre sul mondo aleggiava lo spettro dello shock petrolifero, Luraghi dovette indossare i guantoni e salire sul ring con De Mita per contrastare la creazione – con soldi pubblici – di una nuova fabbrica ad Avellino, pensata per puri scopi clientelari.

Molto gustosa – ancorché meno tragica – è la narrazione del passaggio della Ferrari dalle mani del Drake a quelle della Fiat. Una lunga vicenda, in sintesi riassumibile così: Luraghi rispetta l’impegno con la Fiat di acquistare insieme, e finisce che a Torino se la comprano da soli, agendo alle spalle del leale alleato. Nel libro di Gianola – che ha iniziato la carriera giornalistica a Canale 96, ha lavorato a Radiocor, Sole 24 Ore, La Stampa, La Repubblica ed è stato vicedirettore de “L’Unità” – si scopre un Luraghi che ama la tecnologia, le macchine, la modernità, che sottolinea con trasporto come gli operai specializzati, i carrozzieri, i motoristi italiani siano fantastici. Che parla con amore della “sua” Giulietta, “simbolo di un Paese ferito ne che nelle difficoltà trova la passione e l’orgoglio per risollevarsi”.

 

 

Il manager nato a Milano nel 1905 – “a Porta Venezia, non ricordo in quale via”, scrive nei suoi appunti del 1989, due anni prima di morire – siede per tredici anni al volante dell’Alfa Romeo e se ne va dieci anni prima della cessione della marca del Biscione alla Fiat. Luraghi, che ha continuato a seguire e commentare le vicissitudini dell’Alfa, considererà un “meretricio” la vendita.

Molti manager pubblici onesti e di valore, talvolta hanno gestito con diplomazia i rapporti con la politica; molti altri si sono adeguati, accettando le ingerenze partitiche. Strade impercorribili, per Luraghi. Il suo pensiero lo espresse bene in una intervista a Enzo Biagi: “Io sono convinto che in un Paese come il nostro non si può pensare che a una soluzione a carattere socialistico. Non abbiamo la ricchezza, la nostra materia prima sono i lavoratori, tutti i lavoratori. Ecco perché il funzionario coscienzioso deve opporsi se pensa che il governo sbaglia”.

E’ pieno anche di aneddoti divertenti, il libro. Il più spassoso, per me, non ha a che fare con le auto ma con la benzina. Luraghi nella seconda metà degli Anni Cinquanta è chiamato alla Lanerossi. La risana e se ne va. Si stupisce assai quando l’azienda tessile veneta viene rilevata dall’Eni di Enrico Mattei: è un’operazione senza senso economico, secondo il manager meneghino. Nel tentare di spiegargliela, in un incontro a Roma, Mattei racconta di aver pensato di poter vendere le confezioni di lana nelle stazioni di servizio Agip. “Ragioni tanto ingenue quanto fasulle”, scrive Luraghi nei suoi appunti, “che mi obbligarono a rispondergli di andare a raccontarle al kaiser”. L’acquisizione era stata effettuata per fare un favore a qualche politico locale. Così al supermanager dell’Eni glielo disse chiaro e tondo che lui non era uno che si beveva delle storie del genere. Come la prese Mattei? “Con la faccia un po’ tirata ci rise su”. Che tipo, Giuseppe Luraghi.

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