Negli anni Ottanta, gli studenti cinesi entrarono in contatto con nuove idee e influenze culturali. Nel 1986 e nel 1987 piccole manifestazioni studentesche chiesero un’accelerazione delle riforme. E nell’aprile del 1989 gli studenti di Beida marciarono di nuovo su piazza Tienanmen (…) ben presto la folla, via via più numerosa, cominciò a chiedere che i funzionari rispondessero del loro operato, una stampa libera e maggiori libertà personali: non un governo nuovo, ma un governo migliore. I numeri crebbero. I lavoratori si unirono alle proteste e iniziarono gli scioperi della fame. Gli studenti firmarono un ‘nuovo manifesto del 4 maggio’. Dopo settant’anni il fiore della gioventù cinese aveva raccolto il testimone della protesta. Un mese dopo, pagarono con la morte.

Lanterne in volo di Alec Ash (traduzione di Margherita Emo e Piernicola D’Ortona; Add Editore) è uno splendido ritratto dell’eterogeneità dei giovani cinesi contemporanei. Esempio riuscito di post-new journalism, il testo è un reportage giornalistico in grado di mostrare gli avvenimenti al lettore come se li vedesse da dietro il mirino di una telecamera.

La storia narrata è quella di sei giovani cinesi nati tra il 1985 e il 1990. L’autore segue le loro vite quotidiane dall’infanzia fino alla soglia dei trent’anni. Si tratta di sei protagonisti diversissimi tra loro: il figlio di un militare che finisce in un’unità di lavoro per il consolidamento della metropolitana di Pechino, una sognatrice nata nell’estremo nord della Cina proprietaria di una boutique vintage, l’erede di un funzionario di partito fervente patriota, un ragazzo di campagna schiavo dei giochi online, un cantante che aspira a diventare una star internazionale e una skinhead che vuole affermarsi nel mondo della moda.

Attraverso i loro percorsi viene fuori un mosaico appassionato dell’universo cinese. Un mosaico che mostra le macrotrasformazioni in atto e le piccole novità insinuatesi nel quotidiano dei figli unici post 80, caricati di tutte le speranze cui i loro genitori avevano dovuto rinunciare negli anni di  Mao Tse-tung. È la storia di uno sradicamento e di un nuovo inserimento che ha riguardato e riguarda milioni di individui. L’affresco di antiche tradizioni con inedite problematiche contemporanee. Dagli scimmiottati talent show alle sale da karaoke, dal lavoro alienante senza pause alle notti brave in discoteche e night club, dalle periferie gelide del Celeste Impero alle manifestazioni anti-giapponesi nel cuore di Pechino, dai caleidoscopici bugigattoli adibiti a sale giochi ai palchi dei locali punk, da giardini e laghi sopravvissuti all’abusivismo edilizio ai sotterranei sotto i grattacieli dove vivono centinaia di emigranti delle campagne, Lanterne in volo è una continua scoperta di un mondo sconosciuto, scritto in modo travolgente, serio e documentatissimo.

È proprio questo che mi avvilisce in un certo tipo di migranti, quelli che rinunciano a tutto il proprio bagaglio culturale pur di integrarsi con successo nel nuovo contesto (diversamente da quelli che, all’estremo opposto, si aggrappano disperatamente ai ricordi della madrepatria, e non vedono l’ora di andare in pensione per tornare ai luoghi che hanno appena lasciato). Perché il problema degli Smemorati è che il bisogno di ricominciare da capo nel paese d’adozione non si risolve con l’arrivo nella nuova patria; continua anche in seguito, replicandosi fino a trovare un conveniente punto zero, emotivamente e intellettualmente tranquillo, dove prenderà forma una nuova narrazione di sé, una parabola impeccabile che punta a un arco narrativo pulito, completo di quelle dosi di dolore accuratamente confezionate – e infine superate, naturalmente – che contrappuntano l’ascesa al benessere, al successo e alla felicità.

Tash Aw (eclettico e originale autore malese di origine cinese) con il breve pamphlet – o forse è più giusto chiamarlo saggio-memoir – Stranieri su un molo (traduzione di Martina Prosperi, a cura di Anna Nadotti; Add Editore) riesce in poche pagine a spiegare a trecentosessanta gradi la situazione dei migranti asiatici (condizione umana, culturale, emotiva, sociale) tessendo un filo con quella che è la storia dei suoi nonni quando, negli anni Venti, lasciarono la Cina per la Malesia diventando, appunto, stranieri su un molo in attesa di carpire il nuovo mondo e prendere coraggio con la vita inedita che gli si parò davanti.

Con una scrittura dinamica e semplice – estranea agli arzigogolati filosofeggiamenti dei tuttologi – l’autore conduce il lettore dalla Kuala Lumpur del secolo scorso alla Bangkok contemporanea, passando per Singapore e per le capitali occidentali del mondo globalizzato, cercando di spiegare la condizione estranea che è costretto a vivere chiunque debba abbandonare la sua terra d’origine.

Da bravo scrittore usa le parole per far vedere quello che non si vuole vedere, per mostrare confini, mentali e fisici, opprimenti, per mettere in luce lo stupido e dannoso punto di vista dei buonisti a tutti i costi: “Una delle cose che mi infastidisce di più è sentire persone – che di solito, bisogna dirlo, sono persone di classe media che parlano da una posizione di comfort sociale e materiale – usare la frase ‘Credo che siamo un’unica razza: la razza umana’. Si dev’essere pazzi per pensare che quando un nigeriano entra in un’osteria in Giappone le persone pensino ‘Oh, è della nostra razza’. Non siamo tutti uguali. La negazione di queste differenze crea problemi sistemici e rende impossibile superare le difficoltà a capirsi tra gruppi razziali e culturali. Quello che dobbiamo fare è riconoscere e in qualche modo essere a nostro agio con il fatto che siamo diversi, allo scopo di capire cosa rende una certa persona diversa, di capire che la sua visione del mondo non è la nostra e, soprattutto, in cosa consiste questa visione del mondo”.

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