di Cristina Zibellini

In un paese nel quale la criminalità organizzata è un fatto vissuto da milioni di cittadini, soprattutto da quelli che hanno meno, come un veleno che inquina l’aria e, quando è possibile, spinge molti giovani a allontanarsi, lo scandalo per il comportamento di studenti arroganti mi sembra una comoda ipocrisia. L’ignoranza e l’aggressività sono comportamenti dominanti in ogni luogo sociale, e sono tipici di chi più ha.

Che molti di quelli, beneducati, colti e amanti del bello siano esasperati da una massa ignorante che arriva ovunque e non ha la modestia delle vecchie classi subalterne, dimostra che ognuno difende il proprio modus vivendi. Tralasciamo gli esempi di esperti e laureati che dal video insultano e aggrediscono l’altro che dissente, tralasciamo gli ex ministri che schiaffeggiano i giornalisti, tralasciamo lo splendido eloquio del già presidente Berlusconi, e sentiamoci, noi adulti, responsabili di non aver messo le nuove generazioni nella condizione di passare oltre noi e alla nostra presunzione.

Da questo vicolo cieco, triste e osceno, si esce con un po’ più di rispetto per i tanti, che senza più nessuna identità sociale, senza protezioni, cercano, nei modi più diversi, di opporsi al modello asfissiante che stringe gli individui, tra questo sapere su l’altro e il liberismo culturale, che ha fatto della nostra convivenza un luogo che traduce in relazioni umane la lex mercatoria di antica memoria.
Non si può fare finta di non vedere che la norma, come effetto di una visione che tutela le relazioni umane, sia stata sostituita da una pletora di regolamenti di varia e indefinita natura, che supportano la libertà di affari e hanno cambiato la l’idea stessa di società e degli obiettivi individuali, su cui le persone devono misurarsi.

Un tempo si chiamavano benpensanti quelli che chiudevano le porte su i musi dei giovani contestatori, che erano descritti  come figli di papà che, invece di studiare, occupavano le Università e le scuole (professionali, tecnici e licei) e si opponevano con violenza ai figli del popolo in divisa;  gli operai pagavano , insieme a cittadini anonimi, con le stragi, la difesa degli interessi di classe.

Sì, c’erano gli ideali a campeggiare sulle bandiere e nelle parole di tanti onesti intellettuali e politici, ma di fatto, c’erano semplicemente le classi subalterne organizzate intorno a un nucleo, forte dell’identità del lavoro, che pretendevano di farsi spazio. Inutile fare i moralisti, i poveri non hanno mai parola, né oggi né allora e di loro continuano a occuparsi, forse meno di un tempo, le chiese e le sue organizzazioni.

Il resto è un magma: una parte si identifica con il modello dominante, nei modi che sono propri della condizione di provenienza, cercando di trovarvi un posto; una parte soffre in modo confuso questo modello, ma fa fatica a rinunciare del tutto ai benefici che potrebbe portare e galleggia tra rivendicazione e vittimismo; una parte, quella più colta, che non si è mai identificata con le scelte liberiste, è bene ricordare condivise dai partiti di centro sinistra ben più che dal centro destra, demagogico e tendenzialmente indifferente ai buchi di bilancio, cerca un luogo politico dove sperare di vedere prendere forma qualche modesto progetto che si sporchi le mani con la realtà che, per sua natura, non ha mai i connotati dei sogni.

In quest’ultima prospettiva, la scuola tanto invocata, forse dovrebbe diventare un luogo di insegnamento e crescita dispiegato in un tempo lungo una vita; di fatto, sganciandolo dal ruolo attuale di diplomificio, per attribuirgli una funzione culturale che, inevitabilmente, deve partire dalla realtà di giovani, ma anche vecchi, che vivono e si incontrano su internet e, che, in prima battuta se ne fregano della storia, delle lingue morte e anche delle regole di quelle vive. Se siamo arrivati a questo, non ne usciremo con gli anatemi.

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