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Tonya, ‘Una normale famiglia americana non ce l’ho’. Il film sulla Harding è tutto in questa frase

Tonya, ‘Una normale famiglia americana non ce l’ho’. Il film sulla Harding è tutto in questa frase
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“Non ammetterò mai di averlo detto, ma noi per rappresentarci alle Olimpiadi vogliamo qualcuno che possa essere anche di esempio, qualcuno che porti i valori di una normale famiglia americana”. Ha il finestrino della macchina semi-chiuso e gli occhi semi-protetti dagli occhiali, il membro del comitato olimpico, uno di quelli che deve decidere se la ragazza bionda, poco più che ventenne, di fronte a lui può partecipare ai Giochi olimpici. Lei è Tonya Harding, campionessa di pattinaggio, che lo ha inseguito fin nel garage per supplicarlo: “Non potreste giudicarmi solo per i miei salti?”. E che – dopo la confessione dell’altro – quasi sussurra: “Ma io non ce l’ho una normale famiglia americana”. Ecco, per me il film Tonya (ambientato negli anni Novanta e diretto dall’australiano Craig Gillerspie, protagonista Margot Robbie), che racconta la storia della campionessa di Portland, la prima americana a compiere il triplo axel, giunta ai disonori della cronaca mondiale per l’accusa di essere stata la mandante dell’aggressione alla sua rivale, Nancy Kerrigan, è tutto qui.

Madre alcolizzata e decisamente psichiatrica, marito che la picchia, Tonya scuoia coniglietti con suo padre da quando è piccola e più che sorridere, ghigna. Ma il film sulla sua vita per me non è solo il “solito” racconto di un riscatto impossibile, la classica storia di provincia americana buia, tempestosa e crudele. No. Quel (non) dialogo tra lei e uno dei suoi esaminatori racconta che non esiste oggettività, che non bastano bravura e sacrificio, che anche in campi come lo sport, dove i parametri sembrano chiari, in realtà le battaglie da combattere non sono mai (o non sono solo) quelle che sembrano. E le “istituzioni” piuttosto che asettici arbitri super partes sono sempre rappresentanti di aspettative collettive e griglie di riferimento prestabilite, con le loro chiavi di lettura del mondo.

Il mandato magari è indefinito, ma non per questo meno forte. “Non esiste una verità. Ognuno ha la sua verità”, dice Tonya alla fine del film. Affermazione abusata e ormai scontata, che però all’interno di questa vicenda, dove in fondo lo sport gioca da attore non protagonista, si carica di nuovi significati. Suggerimento pasquale: andare a scoprire la seconda vita di quella ragazza ventenne per decidere se è abisso o resurrezione. Io mi fermo qui, il resto è spoiler.

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