C’è un momento rivelatore alla fine di una lunga riflessione in cui si arriva alla conclusione che uno più uno fa due, che A porta a B e che una parabola, prima o poi, incontra un punto fisso. È il momento in cui si individua un comune denominatore che ha un significato e suggerisce un agire collettivo. Non una regola applicabile universalmente, ma abbastanza vasta e potente da abbracciarne tanti, in grado di riconoscere un modus operandi diffuso.

Nel corso degli anni, quando sono stata attaccata per qualche mio scritto sulle donne (o contro alcune tipologie di uomo), l’insulto più comune col quale sono stata additata era che mi sarei dovuta “vergognare”.

Vergogna è una parola dai risvolti interessanti.

La si usa come moto intimo e riflessivo in seguito a qualcosa di cui si prova imbarazzo, un’azione compiuta e di cui ci si pente o che si sarebbe voluto fare diversamente. Usata come un imperativo la si utilizza sovente a carico dei bambini, macchiatisi di un comportamento scorretto, disdicevole, come l’aver bullizzato un compagno, fatto del male a un animale, raccontato una bugia.

Nella vergogna, che la si esorti o la si provi, c’è sempre un giudizio morale. Sugli adulti viene incitata in merito a certe azioni sconvenienti che possono riguardare la sfera sessuale: un atteggiamento molesto, un esibizionista a spasso per la città, abbigliamenti troppo succinti.

Inconcepibile è usarla come ingiuria tra adulti in disaccordo su un aspetto della vita. Se il nostro interlocutore ha idee diametralmente opposte alle nostre non deve vergognarsi, le regole della democrazia relazionale si basano sul confronto (anche lo scontro, se civile), dal quale nasce una scintilla che nutre l’animo e l’intelletto.

Il fatto che molti uomini dicano alle donne (io non sono l’unica) che dovrebbero vergognarsi delle loro idee (modo meschino di sminuirle dall’alto di una posizione auto-glorificata) non è un fatto casuale. Quell’uomo, innalzatosi a giudice universale, nega il diritto intellettuale della donna a dissentire o criticare. Il fatto che questa particolare espressione sia ad uso (in maggioranza) degli uomini verso le donne, non sorprende affatto.

Nel gridare “alla vergogna” l’accusante svaluta, rimpicciolisce l’idea e la tesi dell’altra parte, bollata come qualcosa di impuro, ignobile. Nel gridare “alla vergogna” c’è tutto l’astio di chi è incapace di accettare una controparte femminile pensante, alla pari, l’impossibilità di riconoscere un valore dialettico; ma anzi, alla stregua di una bambina dalle limitate capacità logiche, la si zittisce.

Questo è quello che fa una certa parte di uomini alle donne: tentare di zittirle. Le più “fortunate solo col potere della tastiera, altre con la forza delle minacce, delle botte, delle ripercussioni.

Fino a quando non ci sarà un riconoscimento di fatto della capacità delle donne di argomentare, di discutere, di disapprovare (anche di sbagliare) mettendole sullo stesso piano intellettuale degli uomini, ci sarà sempre guerra.

C’è sempre guerra quando i diritti di una minoranza vengono trascurati o ristretti, più forte è la voce del dissenso, più accanita sarà la reazione di alcuni uomini. Ma non importa di quanti metri la trincea avanzi, o quanto tempo occorra per procedere, perché laddove c’è una guerra c’è sempre una Resistenza.

Alle donne è dedicato l’ultimo numero di Fq MillenniuM, disponibile qui

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