Tra le multiformi lezioni ascoltate nel Labirinto d’acque della Masone durante la Giornata Mondiale dell’Acqua, due mi hanno colpito in modo particolare.

La prima, tenuta dal paesaggista Thierry Huau, ha rafforzato le mie convinzioni sul ruolo dell’acqua nell’urbanistica e nell’architettura contemporanea. Ne ho già scritto in questo blog e lo farò ancora, riflettendo sulle suggestioni dello studioso francese in base all’esperienza.

Oggi riferisco invece della seconda, la performance artistica di Peter Greenaway, regista e pittore che per due ore ha tenuto l’uditorio inchiodato alla sedia con un turbine di aneddoti, aforismi e immagini filtrate attraverso la sua lunga carriera artistica  tra estetica barocca, illuminazione diagonale, complessità di scenari e tributi all’arte figurativa, nudismo e grottesco, uso didascalico della narrazione in capitoli e abuso di shock emotivi – con la premessa (non condivisa da molti autori) che l’arte cinematografica debba muovere dall’immagine e non dal testo, costruendo il racconto filmico a partire dall’immagine stessa. E dove l’acqua è l’archetipo essenziale.

“Nel corso degli anni, prima senza rendermene conto e poi con crescente consapevolezza, i miei film hanno parlato di acqua. D’altronde, l’acqua non ha certo bisogno di sforzi per recitare il suo ruolo è estremamente fotogenica sia essa nuvola, nebbia, neve, grandine, pioggia, ghiaccio, lago, torrente, fiume, mare, oceano, lacrime” racconta Greenaway, espressione di una cultura poliedrica e assai umiliata dal riduzionismo dominante degli ultimi due secoli.

È bastato il primo video – 26 stanze da bagno, una per ogni lettera dell’alfabeto inglese – a spiegare l’ossessione per l’acqua che riflette e rifrange ogni immagine; assieme al tormento della relazione tra acqua e numeri, elenchi aritmetiche e matrici e simboliche che già Jorge Luis Borges aveva esplorato in letteratura e poesia. Questo video è un bizzarro quasi-documentario dei nostri bisogni corporei più fondamentali e degli spazi che creiamo per soddisfarli. E, nello stesso tempo, un affresco satirico e celebrativo del lato più leggero e intimo della vicenda umana.

Tra le sfaccettate insidie della performance, mi ha stupito la sorprendente capacità di traguardare il futuro di un altro breve cortometraggio, European Showerbath, girato nel 2004 quale contributo inglese all’antologia Visioni d’Europa promosso dall’Unione europea.

Molti anni prima della Brexit, il video anticipa la diffidenza sulla capacità di condividere le risorse e fa riflettere su ciò che i paesi più grandi dell’Unione lasceranno alle generazioni future.

Usando la semplice metafora visiva di una doccia di gruppo, tutti sullo schermo sono nudi, evidenziando la loro unità. Tutti hanno forme ispirate a Fernando Botero ed Egon Schiele piuttosto che a Sandro Botticelli, dove pinguedine e cellulite incarnano l’eccesso di risorse da parte di alcuni, in contrasto con la magrezza di altri. Tutti sembrano praticamente gli stessi, senza vestiti, dove la nazionalità emerge soltanto dai colori della bandiera nazionale dipinta sulla carne. Ma tutti sgomitano per godere del miglior beneficio che scende copioso dal soffione della doccia. Un flusso però insufficiente a coprire l’intero gruppo e che, alla fine, si esaurisce miseramente, scolando le ultime gocce tra i loro piedi attoniti attorno al gorgo dello scarico.

Greenaway ha concluso la performance con l’esplorazione digitale delle Nozze di Cana di Paolo Caliari detto il Veronese, già presentata alla Biennale di Venezia del 2009. È “probabilmente la migliore conferenza di storia dell’arte ‘a guida autonoma’ che si possa mai sperimentare” scrisse allora Roberta Smith sul New York Times. L’elaborazione digitale penetra ogni aspetto della pittura rinascimentale, operando un miracolo contemporaneo che (poco a poco) insinua lo spettatore nella mente del Veronese quando determinò l’abbigliamento, il linguaggio dei corpi e l’espressione dei volti di quella moltitudine di figure. E il miracolo avviene proprio attraverso lo specchio e il filtro continuo dell’acqua e, poi, della pioggia che cade sul banchetto nuziale, dove lo spettatore acquista un imprevisto e immenso potere di visione e introspezione.

Dalla lezione di Friedensreich Hundertwasser – architetto e pittore, scultore ed ecologista che si definiva “medico dell’architettura”, anticipando in modo olistico molti concetti di bioarchitettura – avevo già capito che ogni goccia di pioggia è un bacio dal Paradiso, poiché capace di mescolarsi sul nostro viso con le lacrime che lo solcano nei momenti bui, lavandone via il dolore.

Anche per Greenaway l’acqua è pioggia che ristora, lenisce la sete e alimenta la nostra vita ma anche l’onda di piena che la sommerge e la distrugge. E l’artista ci ha ricordato che l’acqua può essere una ragione legittima per togliersi i vestiti e rimanere nudi, per lavarsi e fare il bagno, per specchiarsi e per nuotare. Ma, naturalmente, pure per annegare.

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