La notizia è passata quasi inosservata, pubblicata su un blog e poi ripresa unicamente da Il Post. Nel rinnovo del contratto collettivo di lavoro dei dipendenti Rai è previsto tra le altre cose che alla morte di un dipendente, operaio, impiegato o quadro, l’azienda possa assumere il suo coniuge o la sua coniuge, il figli o la figlia maggiorenne. Tutto ciò, precisa la Rai, si applica a “situazioni particolari adeguatamente certificate” – per il momento non meglio specificate – e “compatibilmente con le esigenze aziendali e in armonia con il Piano triennale per la Prevenzione della corruzione”.

Facciamo un passo indietro. Ho sempre pensato alla condizione degli orfani come a qualcosa di atroce. Mi sono sempre chiesta come mai lo Stato preveda aiuti per chi resta senza padre o madre solo in casi specifici, ad esempio per i figli delle vittime di mafia (tra l’altro dimezzati qualche anno fa). O per i figli delle vittime di femminicidio, una misura a favore della quale ho scritto molte volte e che finalmente è diventata legge dello Stato. Ma, appunto, non per tutti gli orfani, persone dalla vita segnata dal dolore. Insomma, al tema sono sensibilissima, per molte ragioni.

Ma qui siamo si fronte a qualcosa di diverso. E cioè a un’azienda in mano pubblica ovvero di chiara natura pubblica – d’altronde siamo noi a finanziarla quando ogni gennaio versiamo una somma cospicua – che decide con un referendum interno di far subentrare un parente quando un dipendente muore. Una decisione inverosimile, espressione di un familismo difficilmente tollerabile per chi è all’esterno, e che fa apparire la Rai come una  casta chiusa che decide per se stessa, senza rendere conto ai cittadini. Una decisione che viola qualsiasi principio di meritocrazia ma anche di uguaglianza tra cittadini e che quindi potrebbe passibile, forse, di incostituzionalità.

L’Usigrai mi conferma la presenza di questa norma nel nuovo contratto di operai, impiegati e quadri e rivela che sarà introdotta anche per quello dei giornalisti (non risponde sui dirigenti, ma è possibile che sarà valida anche per loro) e che si applicherà solo nei casi in cui la famiglia versi in stato di indigenza e non abbia una adeguata pensione di reversibilità. Dice, anche, in risposta alle nostre obiezioni, che è assurdo sollevare una polemica su una norma che aiuta famiglie straziate da un dolore, che così facendo non si vedono i tanti progressi fatti sul fronte della precarietà (diminuzione dei precari e aumento dei loro stipendi), su quello delle deontologia (resa molto più stringente per i dipendenti Rai), sulle assunzioni chiamata diretta, ferme dal 2008 mentre sono stati assunti 150 giornalisti con concorso. E precisa che se muore un giornalista, ad esempio, non verrà assunto un parente come giornalista, ma a seconda delle sue competenze.

Ma si tratta di risposte che non rispondono in nessun modo al punto. La lotta contro la piaga della povertà in Rai, lo stop tardivo allo scandalo delle assunzioni a chiamata diretta, un concorso che si aspettava da anni e la stretta sulla deontologia sono cose che un servizio pubblico avrebbe dovuto fare da tempo, ma che non c’entrano nulla con l’evidente assurdo di una misura antistorica e incomprensibile. Se si vuole proteggere la famiglia di un dipendente si potrebbe semplicemente prevedere una formula assicurativa.  Che si assuma un parente in altra funzione dove magari non c’è necessità  potrebbe inoltre essere un danno per l’azienda, ammesso che l’azienda abbia come obiettivo l’efficienza e non la semplice autoconservazione. Ad ogni modo, è un fatto che questa postilla non è stata diffusa e resa pubblica come la Rai avrebbe dovuto visto che la ritiene, sempre nelle parole Usigrai, “una norma che tutte le aziende dovrebbero mettere in pratica”. Perché?

Altri hanno obiettato che si tratta di una forma di welfare aziendale. No, non lo è. Non si può paragonare una clausola che preveda l’assunzione di un parente in maniera automatica ai buoni pasto, allo smart working, all’assicurazione medica o alla pensione integrativa. Queste misure non danneggiano chi dalla Rai è fuori, e comunque quand’anche utilizzassero fondi pubblici si tratterebbe comunque di aiuti relativi all’individuo che – in teoria – ha vinto il posto in base a un concorso pubblico. Qui invece si applica un beneficio a chi non ha vinto nessun concorso, violando, ripeto, ogni principio base della meritocrazia di cui anche gli stessi dirigenti Rai tanto parlano.

Si obietta anche che la Rai non è l’unica ad applicare questa misura, ma ci sono altre aziende che lo fanno. Vorrei rispondere dicendo che un’azienda privata può fare ciò che vuole, ma non un’azienda finanziata dalla collettività. È vero, sono esistiti anche enti pubblici dove questa norma vigeva, ma orma questa pratica è in totale disuso, perché appare correttamente, specie in tempi di crisi, come una forma di privilegio non giustificato, un’espressione di casta, che danneggia chi non può entrare non perché non sia competente o bravo ma perché semplicemente non è parente di qualcuno.

Ma forse sto facendo una battaglia contro i mulini a vento. A ben guardare, infatti, l’assunzione di un coniuge in caso di decesso è una goccia nel mare di un servizio pubblico affollato di figli e nipoti eccellenti e dove dunque episodi di assunzione per parentela non mancano certo anche senza decesso del parente, con conseguenze pesanti in termini di competitività ma anche di giustizia rispetto a tutte quelle persone, giornalisti compresi, per i quali la Rai è un’azienda inaccessibile, a parte rari concorsi fatti ogni morte di papa e con pochissimi posti.

E infatti tutti noi giornalisti arrivati dopo l’assalto alle diligenze pubbliche degli anni Ottanta e in parte Novanta abbiamo sempre escluso la Rai come una possibilità, pur essendo in teoria uno sbocco naturale per chi voleva fare il nostro mestiere. Tutti sapevamo che era impossibile entrare se non avevi un aiuto di qualche tipo, o se non eri disposto a fare dieci anni (e a volte anche di più) di precariato. E allora, in fondo, questa norma conferma quanto già avevamo intuito. E cioè che il servizio pubblico non ragiona per competenze, ma avendo in mente l’autotutela di se stesso e di chi sta già dentro. Il tutto nel (comodo) silenzio generale, perché immaginate se una tale norma la facessero i deputati. Giustamente, si scatenerebbe un putiferio. Certo, i parlamentari sono eletti. Ma comunque, sempre di soldi pubblici stiamo parlando. Come i deputati rendono conto ai propri elettori, così la Rai dovrebbe rendere conto ai suoi spettatori. Riguarderà poche persone, si dice infine. Non importa. È il principio che è sbagliato. Ma quella misura è simbolica, e in quanto tale fa passare il resto, magari anche le cose buone, in secondo piano. Come è stato possibile, in tempi di enorme sensibilità tema, vista la carenza di lavoro e di reddito là fuori, che non si sia pensato a questo, quando si è deciso di introdurla?

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