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‘Sacrificio’, con Andrea Carraro mi sono spinta fino all’inferno

‘Sacrificio’, con Andrea Carraro mi sono spinta fino all’inferno
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Ho finito il romanzo Sacrificio (Castelvecchi), dello scrittore e sceneggiatore romano Andrea Carraro. Non essendo questa una recensione accademica (non ne avrei i titoli), riferisco quanto segue, sentimenti e ragioni molto personali dunque. Il romanzo l’ho interrotto alcune pagine prima della fine, ho dovuto aspettare un po’, per finirlo del tutto. Stavo malissimo. Avevo il cuore accelerato, le mani fredde, sudate. E’ una storia che ti piega in due. Qui non lo si dice come uno sfoggio, a volte si eccede in facili celebrazioni, per esaltare (in buonafede o vigliaccamente) qualsiasi cosa e gridare al capolavoro a ogni piè sospinto, esagerando o mentendo.

Tornando al romanzo: è la storia di una famiglia, un padre, una madre, una figlia, c’è una Roma perbene e contemporanea. Relazioni fragili e tediate dal benessere, indebolite dallo stesso. E c’è un padre soprattutto e una figlia, un legame fortissimo, tragico. Adolescente, figlia di separati, eroinomane. Il padre racconta di questa figlia, fino all’abisso: quando ha cominciato a farsi di eroina? Non è chiaro, non importa. Il padre, Giorgio, farà di tutto per salvare, lei, Carolina. Fino a scendere all’inferno, e lo fa, non solo metaforicamente.

La scrittura di Andrea Carraro è blasfema, spregevole, violenta, precipitata nell’oscurità. Lui è uno scrittore grandioso, lo ripeto. In molti lo ricorderanno anche per il romanzo deflagrante e drammatico che fu Il branco, da cui Marco Risi trasse l’omonimo film, nel 1994. Da quanto tempo non mi capitava di leggere ammirata? Non è questo il punto, torno a ambientazioni buie, le piazze, il Solari, Berlino, le stazioni, mescolo quello che ho visto, letto, vissuto, le spade, l’ero, incubi.

Incubi.

Tutto ritorna in Sacrificio.

Perciò sto male. Però intercetto quel che riesco: il talento non è mai normalizzato. Non è mai democratico (nella letteratura voglio dire). C’è una buona dose di follia (ok, è un’ovvietà), ma applicatela a un processo di demistificazione, di devastazione, di sovversione, che succede, scrivendo. Con Andrea Carraro mi domando: quanto terribile sia la scrittura? Come una lama che ti infila le viscere, non puoi sottrarti, non puoi fuggire, niente è come prima. Lui, lo scrittore, esegue acrobazie allucinate. Io chiudo la pagina, scossa da una specie di tremore. Penso a un film con Greta Scacchi, non riesco a ricordare il titolo, inizi anni 80. L’eroina, il figlio (era il figlio? Era un ragazzo senz’altro, aveva all’incirca l’età di Carolina) che ne faceva uso, lei che vuole salvarlo, un incesto che procede per ottenebrare l’aria, spegnere ogni speranza con avidi e esangui desideri. E a proposito di linguaggio letterario (c’è una polemica in corso, lanciata dall’Espresso, cosa sia, dove, come), ecco prendiamo ad esempio Andrea. Non è mica una questione di aggettivi. Quando Giorgio, il personaggio principale, strafatto di roba, guarda il cielo di questa Roma pacifica e contemporanea, e comincia il suo delirante soliloquio, ecco lì c’è lo scrittore che osa dove nessun autore normalizzato e cauto arriverebbe.

Concludo osservando che – forse – per essere scrittori sopra la media, si deve perdere qualcosa in umanità.

Foto tratta dalla pagina facebook dell’autore

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