Premessa: sono uno che ride. Sono uno che ride e lo voglio dire perché una delle tante accuse che mi verranno mosse contro sarà quello di essere nient’altro che un triste radical chic: accusa che tireranno fuori persone, musicisti, che avranno avuto la decenza di innamorarsi di qualche personaggio/gruppo che non aveva alcuna mira se non fissarsi i lacci delle scarpe prima di, ignobilmente, definirsi “indie” o peggio ancora “alternative”. La poetica e i contenuti del cantautorato, anche rock, nostrano hanno lasciato spazio e margine, negli ultimi anni, a chitarristi che non schitarrano, batteristi che trovano senso e gloria nel trigger da studio e tastieristi che, loro sì, ‘tastierano’ alla grande. I bassisti? I bassisti stanno là. Uno scimmiottamento continuo delle stesse cose da cui la musica alternativa ha tentato di prendere le distanze da sempre, nonché un periodo – musicalmente parlando – non necessariamente eccelso e che potremmo, forse, portare ad esempio di quella cerniera sacrosanta che ha sempre diviso il mainstream da tutto il resto.

La resistenza delle nuove band italiane degli anni Novanta muoveva proprio da quello d’altronde e qualcuno, compresi i protagonisti di quella stessa irripetibile stagione, sembrano essersene un po’ dimenticati: tanto che le poltrone di X-Factor saranno pure scomode ma tutto sommato non così tanto, tanto che disquisire di musica con Fedez può essere considerato sì un crimine ma comunque condonabile.

Il cortocircuito che ha intrappolato il Manuel Agnelli di turno, che non pare avere conquistato una persona (una) tra quelle che prima che sedesse in TV lo guardavano con indifferenza se non, addirittura, manco lo conoscevano, è un po’ lo stesso bug che ha sovvertito le regole della musica (diciamo) “indipendente” dal versante più basso: oggi band che hanno all’attivo un disco e mezzo, se non un paio di singoli (succede anche questo) riempiono (pur con qualche trucchetto) i palazzetti e le sale concerti d’Italia nel mentre i loro padrini artistici arrancano perdendo pubblico e mordente.

La musica, almeno a Roma, sembra procedere per aperitivi: una dimensione nella quale, salvo alcune realtà specifiche (locali, eventi, associazioni, laboratori), viene a crearsi un pubblico ancor prima che un nuovo fenomeno musicale sia pronto a sbocciare. Così il margine tra gavetta e successo si è sensibilmente ridotto a favore di un salto repentino, spesso nel buio, divenuto invece in alcuni casi fenomeno nazional-popolare.

E va bene pure così, diremmo, se questo senso di riscatto fosse accompagnato da un’audience all’altezza ma che invece, nel migliore dei casi, porta alto il vessillo del proprio gruppo o artista un po’ come si trattasse di una moderna bandiera politica: il tutto all’interno di uno scenario già desolante, dove cavare un ragno fuori dal buco è sempre stata impresa alla “only the brave” e nel contesto, più generale, di un mercato saturo dove i fuoriusciti dai talent otturano il sifone a suon di richieste economiche folli che non tengono minimamente conto di qualsiasi possibile margine di guadagno salvo, qualche mese dopo, tornare a vivere secondo gli standard di prima e suonare nelle sagre di paese. Nel mezzo tanta musica nuova è uscita e viene il dubbio che le cose migliori siano quelle che non abbiamo ancora ascoltato, quelle che dovrebbero spingerci ad andare oltre i pochi like su Facebook e alla voglia di figurare in prima fila agli appuntamenti che contano in questo mix curioso quanto incomprensibile di personaggi, alla Vanzina, che si prostrano per mantenere inalterato lo standard (già basso) di notorietà che li contraddistingue, gravando sulle spalle di chi non è nemmeno famoso.

La vera notizia, la prima, è che non esiste una scena musicale (almeno qui a Roma): esistono banconi, tavolate, ristoranti ai quali siedono persone che provando simpatia reciproca decidono un po’ per tutti noi. La seconda notizia, o almeno io adoro considerarla tale, è che tutto questo passerà e tra non molto potremo risparmiarci la fatica di raccontarlo e spiegarlo a qualcuno. La musica, quella vera, non ha bisogno di imporre alcun sorriso se, come tutti i piccoli e grandi sommovimenti dell’epoca moderna, prende vita da un’esigenza narrativa concreta o, addirittura, situazioni di vita di estremo disagio. Ora che le tecnologie hanno permesso a chiunque di fare musica, ben prima che tutti potessero invece parlarne e scriverne, dovremmo mantenere l’impegno di ricordare a tutti noi che comunque non è ‘per forza’ che lo si fa e, quindi, non c’è posto per tutti. Terza e ultima notizia: qualsiasi affresco, compreso questo, non tiene per forza di cose conto delle felici eccezioni e di tutto ciò che salta a pie’ pari la norma, per cui non perdete tempo ad indignarvi e sentirvi chiamati in causa, uscite a fare una passeggiata e magari ascoltate pure l’ultimo di Caparezza.

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