A differenza di tanti profeti del rock suoi amici (vivi e morti), Alice Cooper – che all’anagrafe chiama Vincent Damon Furnier – ha camminato tronfio dettando sì legge, ma dal marciapiede, anziché proseguire al centro di quella stessa autostrada che molti suoi colleghi ha consegnato ai giorni nostri un po’ cotti, un po’ liftati, un po’ svampiti. Messi da parte ormai da anni gli eccessi che più volte lo avevano portato ad un passo dalla morte (esemplificativa in questo senso la notizia del quadro di Andy Warhol perso da qualche parte dentro casa sua), il cantante ha attraversato gli ottanta e novanta reinventandosi costantemente con dovizia di particolare e senza mai dare l’impressione di voler scopiazzare qualcuno o qualcosa: in questo senso “Trash” (1989) e “Hey Stoopid”(1991)  – due veri e propri capolavori dell’hard rock moderno – disegnarono nuovamente le basi di un genere che non aveva troppe pretese, contribuendo a far uscire definitivamente lo stesso dalla morsa di uno dei decenni più discussi di sempre: prima che a spazzare tutto arrivassero le bordate grunge della scena di Seattle che lo stesso Cooper non ha mai guardato con astio scrivendo, anzi, un brano con il mai troppo compianto (e recentemente scomparso) Chris Cornell (“Stolen Prayer”).

Intrapresi i duemila attingendo a piene mani dal calderone del metal granitico in voga in quegli anni (“Brutal Planet”, “Dragontown”), Alice Cooper ha poi effettuato il giro di boa tornando negli ultimi anni a suonare sempre più fedele a quelli che sono stati i suoi esordi (“The Eyes Of Alice Cooper”, “Dirty Diamonds”, “Along Came A Spider”, “Welcome 2 My Nightmare”) aprendo nel mezzo pure la parentesi del supergruppo Hollywood Vampires assieme a Joe Perry degli Aerosmith e l’attore Johnny Depp: in onore dell’omonimo locale aperto tempo addietro assieme a tante altre personalità di spicco della musica rock.

In questo senso “Paranormal” (la sua 27esima prova in studio) appare anzitutto un disco onesto, genuino, fedele quanto fresco: di quelle cose che ascolti con interesse consapevole di dove ti porteranno ma che certo non puzzano alla maniera di una giacca che per troppo tempo è rimasta chiusa nell’armadio. Più che un artista, Alice Cooper è forse l’ultimo ambasciatore di un’epoca irripetibile che vive attraverso i suoi dischi, nei quali va centellinando la testimonianza tangibile di chi non solo c’era ma era soprattutto protagonista: nelle 12 tracce che lo compongono, l’album suona come la sintesi encomiabile di quasi mezzo secolo di musica che nulla ha da preoccuparsi, e che viene messa nero su bianco per il gusto di chi la compone e la suona, spesso in un simposio di personalità importanti coinvolte in nome dell’amicizia (Roger Glover, Larry Mullen Jr, Billy Gibbons) e dove guarda caso a trovare spazio è anche la ex Alice Cooper Band: qui rappresentata da Neal Smith, Dennis Dunaway e Michael Bruce.

A stupire è quindi la coerenza del personaggio e dell’uomo, che certo non fa strappare più i capelli ma sicuramente regala dei gran sorrisi segnando una nuova meta nell’ambito di una carriera comunque inimitabile: contrassegnata anche da cadute sonore, pit stop non sempre dinamici e metamorfosi un po’ forzate. “Paranormal” è un disco da ascoltare, un pretesto felice per riscoprire un artista a cui tutti noi dobbiamo molto e che, silenziosamente, non ha mai chiesto nulla indietro continuando invece a rilanciare non per orgoglio ma per passione. Voto: 7.

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