Viviamo in tempi calamitosi e provare dubbi cartesiani di fronte alla complessità del mondo è politicamente sconsigliabile. C’è forse un altro modo per fare politica, basandosi sull’oggettività dei fatti e su un’obiettiva indagine storica? O, detto altrimenti, la verità può essere rivoluzionaria? In una delle scene cult del film Il secondo tragico Fantozzi,  diretto nel 1976 da Luciano Salce, ideato ed interpretato da Paolo Villaggio, l’impiegato Ugo Fantozzi, dopo aver visto e rivisto per anni molti film classici, tra cui La corazzata Potëmkin, e aver subito continue umiliazioni e insulti dal professor Guidobaldo Maria Riccardelli, suo superiore e appassionato di cinema d’essai, che obbliga da anni dipendenti e famiglie a recarsi almeno una volta la settimana al cineforum aziendale, trova finalmente il coraggio di ribellarsi: “La Corazzata Kotiomkin è una cagata pazzesca”.

Giudizio ingeneroso: ammesso e non concesso che le “cineteche”, nei decenni a cavaliere del 1968, fossero per gli “intellettuali” soi disants luoghi di “autentica tortura”, come non sentirsi emotivamente coinvolti nel capolavoro di Sergej Ejzenštejn? È vero, tutto il cinema del Maestro sovietico è sommamente parziale e tendenzioso, poiché esemplare tentativo di trasposizione in immagini della teoria marxista. Le classi dominanti vi vengono rappresentate come ciniche e crudeli, mentre gli operai e gli intellettuali rivoluzionari sono invariabilmente buoni e coraggiosi: ne La Corazzata Potëmkin (1925), gli ufficiali della nave hanno volti giallognoli, selvatici, sguardi torvi e sadici, mentre i marinai sono forti, salubri, con occhi grandi e sinceri; in Ottobre (1928), dei borghesi ben vestiti torturano un simpatico operaio, con le punte dei parasoli e degli ombrelli, mentre ridono fragorosamente. Il socialismo cieco e fanatico di questi film, però, non ne intacca minimamente il valore formale. Il problema qui è ne resti intaccato il valore filosofico: il timore nutrito dai filosofi tradizionali è sempre stato che laddove si coinvolga solo l’emozione e non ci si appelli più alla ragione, alla fine si perde in obiettività.

Cercando nietzschianamente di persuadere, il cinema di Ejzenštejn costituisce l’antecedente di un modo, altrettanto parziale, di fare del “buon” cinema impegnato, almeno nella misura in cui un militante sappia perfettamente da che parte stanno la verità e il bene, nonché coloro che sono irrimediabilmente sviati e devono dunque essere combattuti e distrutti. Anche in Z-L’orgia del potere, di Konstantin Costa-Gravas del 1969, la semplificazione estrema della complessità sia del reale sia degli esseri umani allenta il vincolo con la verità. Il capolavoro del regista franco-greco è uno dei film più tendenziosi e imparziali della storia del cinema, un’opera bellissima in cui l’azione, l’avventura e la suspense emergono in modo evidente sull’obiettività e la sobrietà dell’analisi politica, intesa in senso scientifico. Esso si apre con una precisa dichiarazione d’intenti: “Qualunque somiglianza con persone o fatti reali non è affatto casuale: è deliberata”.

E vi si racconta di un Paese “immaginario”, comandato da militari e da gruppi di estrema destra, in cui viene organizzato un comizio d’opposizione, nel quale dovrà prendere la parola un parlamentare d’idee liberali, immediatamente assunto a leader dalle masse socialiste e dagli intellettuali progressisti. La conferenza, boicottata in tutti i modi dai militari, finisce tragicamente, col leader che viene ucciso per strada, in una scena caotica: un furgoncino sbuca in mezzo alla folla e uno degli occupanti, con un bastone, colpisce alla testa il deputato, ferendolo a morte. La versione ufficiale dell’accaduto, fornita dai comandanti della polizia e dell’esercito, prontamente e supinamente recepita dal procuratore generale, è: incidente stradale. Un onesto giudice istruttore ufficialmente incaricato del caso mette, tuttavia, in moto un’indagine, che finisce per rivelare le responsabilità di gruppi paramilitari guidati da ideologie anticomuniste, i quali agiscono in forza di precisi ordini delle massime autorità del Paese: non d’incidente si è trattato, ma di assassinio premeditato.

Contro tutte le persone coinvolte, senza riguardo per alcuno, s’instaura un processo che alimenta le aspettative di chi s’illude stia nascendo una società in cui regni finalmente la giustizia. All’esito, tuttavia, salve le condanne di qualche capro espiatorio e la rimozione dello scrupoloso giudice istruttore, ognuno tornerà impunito al suo posto. La narrazione è sfacciatamente manichea e non vi sono dubbi radicali su dove stiano il bene e il male, l’intollerabile e il giusto. Il film funziona perfettamente come pamphlet, riuscendo deliberatamente a risvegliare l’odio e l’immediata adesione, mettendo attori carismatici nelle vesti dei personaggi che è necessario esaltare e dosando sapientemente crudeltà, vigliaccheria e coraggio nella distribuzione di eventi e ruoli. Con ogni probabilità, un’analisi dei fatti obiettiva e imparziale, senza eroi e assassini, seppure più aderente alla realtà dei fatti, dal punto di vista politico-rivoluzionario sarebbe risultata inefficace: come viene detto alla fine di Cadaveri eccellenti, altro grande capolavoro del Cinema politico, diretto da Francesco Rosi, nel 1975, “Non sempre la verità è rivoluzionaria”.

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