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Femminicidio Manduca: la sentenza contro l’inerzia dei pm è una vittoria per le donne, ma non basta

Femminicidio Manduca: la sentenza contro l’inerzia dei pm è una vittoria per le donne, ma non basta
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Ora ne parlano e ne scrivono tutti. La Corte d’Appello di Messina ha condannato la Procura di Caltagirone per “negligenza inescusabile”, per non aver  tutelato i diritti di Marianna Manduca assassinata dall’ex marito, Saverio Nolfo, il 3 ottobre del 2007, ed ha stabilito un risarcimento di circa 300mila euro per i suoi tre figli che attualmente hanno 15, 13 e 12 anni. Quella di Marianna è stata la cronaca di una morte annunciata come altre che, purtroppo, l’hanno preceduta. Violenze e femmminicidi commessi nonostante le denunce fatte dinanzi a un’autorità giudiziaria spesso rimasta immobile, per inerzia, mancanza di competenze, assenza di lavoro di rete tra forze dell’ordine, tribunali, servizi sociali, centri antiviolenza. Quella rete che dovrebbe sostenere le donne e bloccare gli autori di maltrattamento e che, in troppe realtà, non esiste o ha maglie troppo larghe attraverso cui passano ingiustizie e rivittimizzazioni.

Oggi non possiamo dire che Marianna Manduca abbia ottenuto finalmente giustizia perché se l’avesse ottenuta sarebbe viva e crescerebbe i suoi figli serena e al riparo dalle violenze dell’ex marito. Non è stato così. Lei non c’è più e i suoi figli sono nelle Marche, affidati nel 2010 a Carmelo Calì, uno zio che ha fatto ricorso contro quella Procura indifferente che la lasciò ostaggio della violenza di un uomo fino a che non venne uccisa. Marianna non fu creduta e ci fu una sottovalutazione del pericolo. “Tutta la questione venne affrontata come fosse una lite familiare”, ha detto Alfredo Galasso, il legale che ha seguito la causa contro la Procura di Caltagirone.

Per dodici volte Marianna aveva denunciato violenze e minacce e aveva anche intrapreso una dura battaglia legale perché l’ex marito violento e tossicodipendente aveva ottenuto anche l’affidamento dei figli e le impediva di vederli. Nonostante tutto, qualcuno doveva averlo ritenuto un buon padre, non si sa bene in base a quale valutazione, anche se le aveva ripetuto in più di una occasione: “Con questo ti ucciderò” mentre le indicava il coltello con il quale effettivamente l’avrebbe assassinata il 3 ottobre del 2007.

Titti Carrano presidente della rete nazionale dei Centri antiviolenza ha ottenuto, a marzo, la condanna dell’Italia da parte della Corte di Strasburgo per il femminicidio Talpis. Riguardo alla sentenza Manduca la ritiene una “grande sentenza” e indica quali sono ancora i nodi da sciogliere per tutelare i diritti delle donne. Quei nodi che le attiviste D.i.Re incontrano ancora come ostacoli ai percorsi di uscita dalla violenza delle donne: “Le risposte istituzionali sono ancora poco efficaci, frammentate, i Centri antiviolenza depotenziati, la sottovalutazione del rischio e la discrasia tra i tempi di protezione e i procedimenti legali sommata alla vittimizzazione secondaria che le donne subiscono nei percorsi giudiziari quando scambiano la violenza con situazioni di confitto mettono ancora a rischio le donne“.

Sono ancora troppe le donne che si sono rivolte alla giustizia senza ricevere risposte adeguate. Ad aprile sono state uccise, ad Ortona, Letizia Primiterra e Laura Pezzella nonostante una denuncia. E nel 2013 altre donne che avevano denunciato sono state uccise: Cristina Biagi a Marina di Massa ed Erika Ciurlia a Taurisano; nel 2012 a Palermo, Carmela Petrucci, morta per difendere la sorella vittima di uno stalking denunciato all’autorità giudiziaria. Denunce che dovrebbero essere comunque sempre affiancate da altri interventi di sostegno alle donne.

La sentenza di Messina ci dice che quando una donna muore è doveroso capire se ci sono delle responsabilità istituzionali perché nei Centri antiviolenza lo tocchiamo ancora con mano: non sempre sono le donne che tacciono le violenze, spesso sono le istituzioni a essere sorde.

@nadiesdaa

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