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Elezioni in Olanda: che l’ultradestra vinca o perda, la wilderizzazione è già realtà

Elezioni in Olanda: che l’ultradestra vinca o perda, la wilderizzazione è già realtà
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Tra i tweet islamofobi di Geert Wilders, le urla di Erdogan e il fiato sospeso di mezzo mondo, l’Olanda va finalmente al voto. Lo sguardo di tutti è puntato proprio su Geert Wilders ma in realtà la partita olandese si gioca su dinamiche più complesse della vittoria o la sconfitta di Geertje. Wilders probabilmente, non vincerà le elezioni ma anche immaginando uno sprint dell’ultima ora del suo Pvv, il sistema olandese – fatto proprio per costringere partiti diversi a collaborare – lo inchioderebbe alle rigide regole dell’aritmetica, senza gli “aiutini” dei premi di maggioranza.

Va detto che a lui di governare non può importare di meno: capo e volto unico di un prototipo di partito “post-politico” senza base, senza iscritti, senza programma e senza una struttura, Wilders campa grazie ad una Onlus che raccoglie fondi per la sua guerra personale contro l’islam. Per il resto, il Pvv è sulla bocca di tutti ma oltre ai tweet dell’account personale del capo, non lascia altre tracce.

Lo sanno bene i giornalisti di mezzo mondo che da settimane vagano come mosche impazzite per la provincia, avventurandosi tra villaggi dai nomi impronunciabili – per chi non conosce l’olandese – e gli ordinati sobborghi residenziali dei grandi centri, a caccia di elettori del Pvv. Troupe televisive assediano da giorni Almere, una delle città più tristi d’Europa con i suoi edifici non più vecchi di 30 anni. Nata a fine anni 70 da terra strappata al mare, la più giovane città d’Olanda è una spianata di centri commerciali e lunghe file di caseggiati, che si porta dietro la pessima reputazione di “discarica sociale” di Amsterdam: laggiù il Pvv è primo partito. Neanche ad Almere, però, si trovano elettori disposti a parlare.

Questa è la realtà che spaventa il mondo. Eppure la vicenda di Wilders racconta altro: la polarizzazione, il clima d’odio, le disuguaglianze e quel razzismo strisciante, eredità della cultura coloniale olandese. Geertje non ha inventato nulla, si è limitato a scoperchiare il vaso di Pandora. Wilders, probabilmente, perderà ma la sua azione ha contribuito a radicalizzare l’intero arco parlamentare.

Un esempio? Nei – noiosissimi – dibattiti televisivi delle ultime settimane, nessuno parlava più di Europa, se non di “Europa a due velocità” (per la cronaca, noi italiani saremmo nella seconda velocità); pochi parlano di abolire i privilegi fiscali delle multinazionali troppo impegnati a vincere l’”asta” per aggiudicarsi il bottino di corporation in fuga da Londra; quasi tutti sono per militarizzare le frontiere meridionali contro i migranti anche se l’Olanda dista migliaia di chilometri tanto da Lampedusa quanto da Lesbo. Ma soprattutto molti, la maggioranza bianca, sono per l’integrazione “forzata” degli stranieri. La cultura coloniale olandese, la cosiddetta “VOC mentaliteit”, definizione coniata dall’ex premier Balkenende, vuol dire proprio questo: integrazione uguale assimilazione. Se un tempo l’alternativa all’assimilazione era la segregazione, oggi quell’opzione – causa l’enorme pressione dei movimenti populisti – non è più sul tavolo: da destra a sinistra tutti temono di perdere il voto dell’uomo bianco quindi il “vivi e lascia vivere” è ormai storia.

Queste non sono certamente novità mentre è nuova di zecca la risposta alla “wilderizzazione” che arriva dalle minoranze: l’Olanda assiste all’emergere di movimenti costituiti da seconde e terze generazioni, quelli – insomma – ai quali nessuno può più dire “tornate a casa vostra”. Mentre la classe media bianca si radicalizza, insomma, le minoranze non stanno a guardare: Artikel 1 e Denk, i due partiti multietnici con più chance di entrare in Parlamento, sono un esempio di questo discorso. Il primo è un partito fondato dall’ex volto v di origine surinamese Sylvana Simons che si presenta con una lista mista di intellettuali e personaggi pubblici olandesi e con background multietnico che criticano l’apartheid culturale olandese; l’altro è un partito a forte impronta turca e musulmana, fondato da due deputati fuoriusciti dal partito laburista, che chiede di abbandonare il termine “integrazione” per sostituirlo con quello “accettazione”. In questo quadro, le galassie socialista e rosso-verde mostrano l’usura del tempo: il loro orizzonte, soprattutto sul piano dei rapporti tra la società mainstream e le minoranze, non funziona più. Se è vero che, tradizionalmente, le prime generazioni votavano a larga maggioranza per i partiti social-democratici, per i figli quello è affare dei padri; oggi, loro vogliono di più e sentono sul collo, il fiato di una parte della società maggioritaria che li percepisce come corpi estranei.

Questo scenario fa da sfondo al voto di oggi. Wilders potrà vincere o perdere ma la wilderizzazione dell’Olanda è riuscita a perfezione. E se il mondo si limita a guardare solo l’effetto “contagio” per gli altri movimenti populisti, in una logica fortemente polarizzata perde l’importanza della sfida che si gioca sull’altro lato della barricata.

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