Quando i travel blogger si presentano dicono sempre che viaggiano sin da quando erano bambini. Ma come erano i viaggi da bambini?
Le mie vacanze da bambina si facevano in automobile! Una 128 sport, poi sostituita da una Seat Ibiza (che è poi stata sostituita dall’auto che guido tutt’ora). E avevano un’unica destinazione: LA JUGO. Così era confidenzialmente chiamata l’ex repubblica socialista federale della Jugoslavia.

Ebbene si partiva con l’automobile coi finestrini abbassati, dal momento che l’aria condizionata non c’era e prepustnica alla mano (il lasciapassare, ndr) si andava verso il confine di seconda categoria. Il valico di seconda categoria era aperto solo dalle 8 alle 18 e poteva essere oltrepassato solo da coloro che erano residenti entro 10 km dal confine e che possedevano il lasciapassare. I valichi di seconda categoria erano nascosti, non segnalati in quanto irrilevanti se non per i residenti e collegavano piccoli centri abitati a cavallo del confine. I finanzieri che a turno presidiavano il valico avevano un lavoro di tutto riposo, generalmente non uscivano nemmeno dal gabbiotto ma si limitavano a farti un leggero cenno per farti proseguire.

Poi si dovevano cambiare i soldi, lire con dinari. Ora io non ricordo i tassi di cambio, la situazione dell’inflazione monetaria in Jugoslavia, ma vi posso dire che ti davano delle mazzette di soldi. Ebbene sì. Proprio le mazzette, con tanto di fascettina! E noi non cambiavamo tanti soldi, qualche centinaio di migliaia di lire. Ci sembrava di essere Paperon de’ Paperoni. Se fossimo stati oggi ci saremmo instagrammati con in mano le mazzette e avremo postato la foto sul nostro profilo Facebook (da veri parvenu). Ma noi andavamo in vacanza con un rullino da 12 da mettere in una macchina fotografica di produzione russa e l’inquadratura doveva necessariamente contenere un monumento + qualcuno di noi. Non c’era scampo artistico.

E parlando delle mazzette di soldi mi ricordo le cassiere panifici “della Jugo” che mettevano i soldi dentro le buste di plastica della spesa, quelle del supermercato per intenderci. La cassiera era circondata da soldi che valevano quasi niente. C’erano tantissimi soldi, privi di valore. Mentre eri in fila al negozio vedevi la cassiera che periodicamente svuotava la cassa, perché non riusciva a contenere le banconote, e quindi doveva ficcarle a manate, accartocciandole dentro le buste.

Si partiva e appena dopo pochi chilometri, regolarmente, mia madre, per qualche strana e incomprensibile ragione, comprava una caciotta dall’odore pestilenziale dal primo contadino che incontrava per la strada. E la piazzava sul sedile di dietro, sotto il mio naso. Non ricordo se il formaggio sia poi stato mai mangiato al ritorno, dopo 15 giorni di sole ferragostiano a scaldare la lamiera dell’auto, ma per mia madre era un must.

C’erano le soste. Io odiavo i bar dell’ex Jugoslavia, non erano per niente a misura di bambino. Non c’erano gelati, e se c’erano erano molto diversi dal Calippo, dal Twister, da quello a forma di piede o di pantera rosa. Ero una vittima del consumismo. Prendevo un’aranciata, di quell’arancione così finto e di quel gusto di medicina. Poi c’era la limonata. Sissignore, come nelle vignette dei Peanuts. Beh, io la limonata l’adoravo, dolce, non gasata, ovviamente senza tracce di limone… buonissima!

Tra una cosa e l’altra bisognava cercare un posto per pernottare. C’erano due alternative: la prima gli alberghi statali con personale tutt’altro che simpatico oppure gli antenati del Bed and Breakfast. Verso le 6 di sera le anziane si mettevano lungo la strada principale con i cartelli con la scritta “Zimmer/ Sobe” (camere), tu ti avvicinavi a una, la facevi montare in macchina e ti facevi portare a casa sua. Se la stanza non ti piaceva la riportavi indietro, altrimenti aveva finito di lavorare per quel giorno. Infatti non erano come certi B&B che sembrano quasi alberghi, ma era un’unica stanza a casa dei proprietari che talvolta dormivano in più persone in una stanza per poter affittare l’altra. Il bagno era uno e condiviso con tutta la famiglia. Durante la colazione al mattino, la padrona di casa tirava fuori il servizio buono e le tovaglie ricamate a mano, perché c’erano degli ospiti.

Durante questi viaggi ho scoperto altre culture. Ho imparato a togliermi le scarpe per entrare in un luogo di culto. E questo non davanti all’imponente Moschea Blu di Istanbul, ma in una modestissima moschea sperduta chissà dove lungo i Balcani. Con un anziano signore che con pazienza e un sorriso mi spiegava perché bisognava farlo e mi rassicurava sul fatto che nessuno mi avrebbe rubato le scarpe. Ero confusa e affascinata da tante diversità.

Ho avuto il piacere di attraversare il ponte di Mostar prima che venisse distrutto, conoscevo la storia della città prima che ne parlassero i telegiornali. Ed ero una bambina. E quando ho visto le immagini col ponte distrutto, il mio pensiero è andato ai ragazzi che ti chiedevano qualche moneta per tuffarsi dal ponte. Dov’erano?

Poi proseguivi ancora verso sud, e nei bar non trovavi nulla. Mangiavi solo agnello allo spiedo circondato da cipolle, c’era solo quello. Ma c’era il caffè turco, e c’era mia madre che mi spiegava che dai fondi di caffè si può leggere il futuro e allora me lo facevo leggere e lei inventava cose belle.

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