Com’era facilmente prevedibile, a parte le scontate e doverose visite natalizie delle istituzioni, l’interesse dei media sull’ultimo sisma è via via scemato, derubricato a sola perdita di “cose” e non persone. Agli annunci perentori, “Ricostruiremo dov’era com’era”, senza il dubbio della ragione, sarebbe stato auspicabile un più saggio “chi lo deve e come lo deve fare”.

Mentre lo sciame sismico era ancora in atto, proclamavano i loro editti, progettisti di grattacieli, urbanisti, geologi, archeologi, storici, sociologi e naturalmente politici. Poco importava che la parte più significativa e connotativa dell’Italia fosse in polvere, perché ormai di questo si tratta, e non già frantumi significativi, quindi ipoteticamente passibili di interventi di anastilosi (ricostruzione, ndr); poco importava se un minimo di cautela doveva portare ad analizzare scientificamente le cause dei crolli.

Riguardo poi il “chi lo deve fare” si è invocato, nei vari servizi giornalistici, l’esclusivo ricorso agli ingegneri, senza peraltro precisare quali, essendo la categoria molto vasta come tipologia, dai nucleari, ai gestionali, agli edili, mentre ovviamente gli unici che possono esercitare un ruolo significativo in questo frangente, sono gli strutturisti specializzati in edilizia sismica.

Viceversa pochi sanno invece dell’obbligatorietà della figura dell’architetto nei progetti di restauro di edifici storici vincolati e non, secondo il R.D. 2537/1925 confermato nella sentenza C.d.S. n.5239/2006, dove peraltro, in tutti i manufatti, è sancita l’inscindibilità tra componente strutturale ed architettonica, tant’è che le Soprintendenze esprimono il loro parere anche su questo aspetto.

Riguardo il “come” poi cosa fare per il dopo, con molta determinazione, da più parti si è invocata la ricostruzione del “dov’era com’era” mutuandolo dal proclama di Venezia (come spiegavo qui) ma sono passati anni perché questa tendenza riassumesse un significato che in ogni caso va meditato, studiato, approfondito.

Non dimentichiamoci due casi casi simbolo e due visioni contrapposte: il Belice ed il Friuli.

Nel primo neanche un immobile è stato recuperato, pur considerando che, ad esempio a Gibellina, Salaparuta, Partanna, Poggioreale, Montevago, porzioni significative di manufatti di pregio erano sopravvissute alla furia devastatrice. Unica eccezione la chiesa di Partanna salvata grazie all’intervento di Giuseppe Bellafiore, all’epoca presidente della sezione palermitana di Italia Nostra. Viceversa si preferì costruire ex novo a pochi km di distanza con risultati formalmente molto discutibili. Furono chiamati artisti ed architetti in voga  perseguendo l’idea della new town e di “museo a cielo aperto”. Eravamo in pieno Sessantotto ed ogni accenno alla ricostruzione sarebbe suonata come un’eresia. Il risultato furono opere assurde e mai finite che prosciugarono gli interi stanziamenti (ne sono un esempio la piscina e piazza post modern di Portoghesi a Poggioreale).

Emblematico il caso di Gibellina, dove fu operata una scelta forte, decidendo di coprire le macerie con cemento bianco e realizzare, per opera di Alberto Burri, una grande opera di arte contemporanea, definita il grande Cretto, ideato nel ’68, iniziato nell’85 e completato nel 2015, per un’estensione di circa 8.000 mq. In quel preciso momento storico, questa scelta, a cavallo tra il ’68 e primi anni 80 fu giudicata coraggiosa, pregna di altissimo valore culturale, anche se non condivisa dalla popolazione.

Di taglio completamente opposto la scelta del Friuli, che 10 anni dopo il Belice, optò per la ricostruzione minuziosa dei suoi monumenti, non solo con i frammenti minuziosamente catalogati, ma anche con la ricerca di pietre e materiali analoghi e coinvolgendo nel processo della memoria condivisa tutti gli abitanti e progettisti.

La stessa storia dei tanti terremoti devastanti ha documentato che interi paesi sono risorti secondo le caratteristiche stilistiche dell’epoca. Emblematici i casi di Reggio Calabria ed Avezzano, ricostruiti in stile umbertino. Lo stesso avvenne per i vari terremoti, eventi catastrofici vari e bellici, e in varie zone d’Italia, quasi sempre ricostruiti secondo lo spirito e l’architettura del tempo. Pertanto, in teoria, dovrebbe avvenire così anche ora, se non fosse che per gli esempi nefasti citati di aggregazioni senz’anima e prive di quella “qualità diffusa” che connotava i borghi scomparsi, giustamente gli abitanti delle zone colpite ora, sono allarmati.

Il dibattito su come recuperare il perduto ha pervaso non solo le coscienze italiane ma anche quelle europee, dalle teorie “ricostruttive” di Viollet Le Duc e D’Andrade a quelle romantiche e decadentistiche di Ruskin, sino ai saggi interventi didattici di Boito e Giovannoni, culminate poi con la Carta di Venezia di Brandi ed altri.

Il rischio potrebbe essere, trascurando la grande scuola di restauro che ci contraddistingue, di realizzare un mix tra Porto Rotondo, villaggi outlet, o Las Vegas, o tipo le finte Portofino che si stanno costruendo a Mosca. Anche se le intenzioni sono lodevoli e mirate alla ricucitura del tessuto, alla clonazione scientifica dei materiali delle tecniche tradizionali supportate dalla conoscenza di tecnologie per il consolidamento ed miglioramento sismico, il tutto va finalizzato alla dignità delle popolazioni, dei luoghi e alla restituzione della Bellezza.

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