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‘Non cercare l’uomo capra’, nel diario-saggio la domanda: ‘Chi ha deciso i confini?’

‘Non cercare l’uomo capra’, nel diario-saggio la domanda: ‘Chi ha deciso i confini?’
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Ho appena finito di leggere il nuovo romanzo di Irene Chias, “Non cercare l’uomo capra”, uscito per Laurana editore di recente, nella collana Rimmel. Ho chiuso l’ultima pagina con un sorriso. Dentro ho ritrovato un mondo che mi è prossimo, che ha la forma di un melting pot, meticcio, anticonvenzionale, a tratti. Ordinario anche. Tutto insieme. Non saprei nemmeno dire se è esatto parlarne come di un romanzo. Irene Chias usa l’espediente del diario, in buona parte. A volte sembra un saggio. Racconta di sé, ma soprattutto di questi giorni, in una Milano contemporanea, caotica e contraddittoria, irretita e nello stesso tempo destinata all’alterità.

Ed è la visione politica in fondo che emerge su tutto, la possibilità che il valore immigrazione rappresenta, posto che Irene lascia presagire quanta stupidità (mi concedo il termine) confluiamo nel pregiudizio in cui è costretta la parola stessa “immigrazione”. E questo calando la microstoria nella Storia, di naufragi e spostamenti di uomini nei numeri dell’apocalisse. Irene lascia intendere il diritto alla libera circolazione, chi ha deciso i confini? Una linea retta fissata da un tale un dì distrattamente, arbitrariamente, e che un giorno diventerà coercizione, limite per qualcun altro. Frontiera. Morte, foss’anche.

Irene racconta di sé, dei suoi viaggi in terre lontane, dei suoi amori, del suo amico del Senegal, di Simona che sta con un gambiano. Del terrore di quel gambiano soppresso nella memoria delle prigioni, della Libia, dei trafficanti, dei mille deserti superati, dell’incomunicabilità, della suggestione di una poetica: la negritudine.

C’è moltissimo in questo diario-saggio di Irene Chias, siciliana, con l’inquietudine autentica del globetrotter. Piace seguirla di capitolo in capitolo, c’è molto delle giovani donne di questi anni, della noia e del desiderio di individualità di ognuna, il disagio di un tempo esigente, che spesso di ognuna tradisce i desideri segreti, spacciandoli per altri, indotti e fasulli. E’ un linguaggio fresco, la scrittura è agile, di comprensione immediata.

Così Irene Chias fa passare il suo messaggio, il suo sguardo politico sul mondo, con l’ingenuità di chi crede ancora che impegno civile e militanza ne siano la continuità. C’è una storia che ne incontra altre, dunque, quella di Simona, del gambiano Seedia che sta con Simona, del senegalese Assane, di Rodrigo, giocatore argentino. Mi piace il mondo di Irene, così promiscuo, disordinato, in cerca della vita, di un comodo separé dove collocarsi, ma solo per poi spostarlo di nuovo. Nell’attesa, o in un pellegrinaggio senza il peso della paura, dell’altro in special modo. Perché dice Irene: alla fine siamo tutti migranti.

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