Ricevo molte mail da aspiranti scrittori. Immagino che in buona parte si rivolgano a me come a un’agente, cioè proprio scambiandomi per un’agente letterario. In altri casi, conoscono quelle poche cose che ho fatto. Mi mandano in allegato i loro manoscritti. Provo sentimenti contrastanti, tutte le volte: un po’ il disagio, un po’ la tenerezza (ero anche io così piena di entusiasmo, usano i medesimi toni, drammatici e melodrammatici). La disperazione, il senso sentimentale e ottocentesco attribuito alla scrittura. L’irreparabilità di un destino a tratti persino nobile o elitario. La realtà fa un po’ più schifo.

Tutte piccole Jane Austen o improvvisati Bukowski, spesso si oscilla tra l’uno e l’altro estremo. La mia risposta è sempre onesta, e non li abbandono mai al silenzio, il silenzio lo so è il castigo di un aspirante, in special modo di un aspirante scrittore. Il silenzio fa molto male a un aspirante scrittore. Se posso do i riferimenti che conosco, che sono in grado di fornire. Non leggo manoscritti, non ho nessun potere editoriale nemmeno per me, figuriamoci per gli altri. E comunque non leggo manoscritti perché è un lavoro, è impegnativo e poi bisogna saper riconoscere un talento, un buon testo da uno mediocre, l’eccellenza dalla dozzinalità.

Non so, qualcosa del genere. Però ecco vorrei anche raccontarvi la mia esperienza di autrice, una su migliaia e migliaia. Considerate il solito dato che si usa come un mantra: ma ‘ndo vai, se escono settantamila titoli l’anno. Ok. Ecco, io sono stata dentro uno di quei settantamila. Per anni e anni ho inseguito ciecamente l’obiettivo di pubblicare. Sognavo in grande, come tutti gli aspiranti. Seguivano fasi di interregno perenne. Di silenzi infiniti. Non succedeva mai nulla. Poi arriva un giorno e il tuo desiderio si realizza. Il caso, la fortuna, la persona giusta.

Cosa succede dopo? Qualche presentazione, se sei fortunata. Io però ad esempio non amo le presentazioni. Se sei fortunata, rimedi discrete recensioni. Finisci a prenderti di collera dentro i commenti di un paio di blog, se sei fortunata sono quelli di riferimento. Impari a difenderti dai troll, dalle cattiverie che, se sei fortunata, ti guadagnerai. All’incirca, ti sentirai un esserino ridicolo, in mutandine davanti al mondo. E questo tutte le volte che ti diranno: ho letto il tuo libro.

Perseguiterai tuo padre e tutti i parenti affinché non ne leggano una sola pagina. In strada, ti faranno le condoglianze, pensando che la sfigata del tuo romanzo – sorpresona – sia proprio tu. Sarai già l’incarnazione della psicosomatica, con tutti i sintomi più strani che la letteratura medica abbia mai diagnosticato. Quindi subentra la fase: “Cosa stai scrivendo? Scrivi! Scrivi?”

Uh, di corsa. E il secondo romanzo è una locomotiva stanca, sbuffante e scafata. Sai come funziona, il massimo che ti puoi aspettare. Eruzioni cutanee come minimo sul finale. L’interregno. Le date di pubblicazione probabili che non si azzeccano mai. L’agente da esibire come una mostrina sul petto, braccio di ferro che mostra i muscoli o James Franco che mostra la tartaruga, avete presente? Le litigate da sboroni su Facebook. I tweet metacinici che nessuno cagherà mai.

L’ego esploso in aria: oramai particelle vibrano per fatti loro in nuove galassie. Eppure. Devi. Scrivi di tutte le cavolate della tua vita, perché magari sai fare solo quello, e mentre lo psicanalista ti ordina di dimenticare se non vuoi finire in Tso, tu ribatti petulante che devi ricordare, disseppellire tutti i cadaveri, rimestare tra i rifiuti. Saprofaga. Se no cosa scrivo? Chiederai piagnucolando a te stessa, al mondo, al tuo ego, le cui particelle sparse nell’universo non hanno nessuna intenzione di chiedere il ricongiungimento. Onestamente: ne vale la pena?

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