di Claudia De Martino * 

Chi è stato veramente Shimon Peres e che ruolo politico ha svolto nel conflitto arabo-israeliano e poi israelo-palestinese?

Il suo migliore ritratto postumo è stato stilato dal giornalista Eric Salerno nel suo articolo apparso su Il Messaggero dello scorso 29 settembre, al quale rimando, perché rappresenta il migliore e più equilibrato resoconto dell’eredità complessa dello statista israeliano, che fu al contempo patriota indefesso e esperto e pragmatico statista, aperto ai compromessi necessari ad assicurare lo sviluppo e la sopravvivenza del suo Paese. Così lo ricorda in una sintesi assai evocativa Salerno: “Se n’è andato l’ultimo dei grandi vecchi d’Israele. Uno dei padri dello Stato nato nel 1948; uno dei maggiori protagonisti politici e militari della sua storia tormentata… Pochi dei suoi compatrioti, specialmente le nuove generazioni, gli sono riconoscenti. Molti… non si rendono conto che fu proprio lui, civile e non militare, alla fine degli anni 50, ad ottenere da Parigi il reattore indispensabile per trasformare il giovane stato nell’unica potenza nucleare del Medio Oriente”. Peres fu, dunque, l’autore di un atto controverso come l’acquisizione della bomba atomica nel reattore nucleare di Dimona da parte dello Stato di Israele nel 1958, nonché della realizzazione di importanti accordi per lo sviluppo dell’industria militare israeliana.

Molte personalità politiche, soprattutto occidentali ma non solo, hanno rivolto a Peres il saluto finale, tributando un eccezionale rispetto a quello che fu un uomo politico israeliano che, più di altri, seppe parlare un linguaggio universale ed accreditarsi presso le cancellerie estere. Sappiamo che coltivò relazioni intense soprattutto con gli Stati Uniti, eterni protettori di Israele, e con la Francia, il cui atteggiamento nei confronti del Paese ebraico appare storicamente più altalenante e che non ha mai rinunciato a spingere per il riavvio di un processo di pace. Un processo nel quale, al di là delle critiche che sono state giustamente formulate in merito, anche Peres credeva e che avrebbe ripreso, qualora fosse riuscito a conquistare il potere con una forte legittimazione popolare, che gli mancò sempre e che lo rese debole rispetto ad altri compagni di partito e rivali politici.

Perché dico che Peres credeva nel processo di pace? Perché lo dimostrò a più riprese, cercando sempre una via pragmatica per uscire dal “muro di ferro” che si era costruito con il mondo arabo circostante attraverso tutte le guerre vittoriosamente o meno combattute da Israele con i propri vicini. Cercò, ad esempio, un continuo e discreto dialogo con la monarchia giordana e il Re Hussein arrivando fino a concludere la pace con quel Paese nel 1994 e nel 1993 operò dietro le quinte affinché si creassero i contatti introduttivi con i dirigenti dell’Olp che portarono agli Accordi di Oslo (il 18 agosto 1993 Rabin autorizzò proprio Peres ad apporre la sua firma sugli Accordi a nome del governo). Non demonizzò mai i Palestinesi negandone il carattere nazionale, come fece ad esempio la compagna di partito Golda Meir, e lavorò affinché gli arabo-israeliani o Palestinesi del ’48 godessero di maggiori diritti economici e politici in quanto cittadini israeliani.

La sua idea di pace, però, non fu mai uno slancio altruistico verso il riconoscimento delle legittime rivendicazioni palestinesi, né scaturì mai dalla capacità di porre sullo stesso piano le esigenze del suo Paese e quelle parallele e opposte dell’altro grande gruppo nazionale che risiede sulla stessa terra -i Palestinesi-, ma piuttosto il frutto di una pacata, razionale e selettiva accettazione di alcuni necessari compromessi al fine dello sviluppo del suo Paese, Israele. In altre parole, Peres fu un uomo che lavorò per la pace come strategia migliore per assicurare il futuro del suo Paese, senza nessuna enfasi etica o morale sul riconoscimento delle rivendicazioni altrui. Per questo il suo ritratto appare controverso ai pacifisti, ovvero a coloro che vorrebbero vedere in Peres un uomo di pace nel senso morale del termine, cosa che non fu, così come agli ebrei nazionalisti ed ipernazionalisti che oggi rappresentano una forte maggioranza in Israele e nella diaspora, appare invece come un difensore mite e poco incline all’ideologia del diritto sacrosanto alla terra del popolo ebraico.

Peres fu uno statista e come tutti i grandi politici fu un uomo doppio, che sapeva impiegare differenti linguaggi a seconda dei contesti: per questo il grande giornalista di Ha’aretz Avi Shavit lo definisce nel suo libro (Una terra promessa, Sperling&Kupfer, 2014) “l’apprendista stregone”. Da bravo politico, sapeva manovrare dietro le quinte per assicurare grandi vantaggi al suo Stato tanto a livello economico che militare, ma non sapeva retoricamente conquistare il cuore delle masse. Peres credeva in una “pace fredda”: una pace che non riconoscesse i torti inflitti nella guerra, che non comportasse eccessivi sacrifici per il popolo ebraico -ad esempio, la rinuncia a Gerusalemme ed il ritorno dei rifugiati- e che soprattutto non aprisse un nuovo capitolo nelle relazioni reciproche tra i due popoli, all’insegna di una rinnovata comunanza ed entusiasmo. Credeva, piuttosto, in una pace che potesse riequilibrare parte di quei torti, che potesse ammorbidirne le conseguenze di lunga durata che ancora pesano sullo sviluppo del Paese -come la sistematica marginalizzazione degli arabo-israeliani nell’economia e nell’educazione-, conseguendo una prosperità condivisa che a sua volta avrebbe assicurato la pace sociale. Questo è il vero messaggio che ha voluto lasciare al suo popolo attraverso le attività della sua fondazione (Peres Center for Peace)  e i vari tentativi di giungere ad un processo di pace che partisse da una indubbia posizione di forza -quella che le colonie e il potere nucleare e militare hanno assicurato ad Israele- per aprirsi all’incorporazione di alcune delle richieste che i Palestinesi avanzano da circa sessant’anni, senza le quali Israele sarebbe stato condannato a periodiche ondate di violenza ed ad un marcato ritardo nello sviluppo economico e sociale, dovendo destinare una parte ingente del suo budget alla sicurezza.

La visione di pace di Peres lascia freddi e scoraggiati, perché non prelude all’amore fraterno ma alla convivenza strategica. Si riferisce alla prima accezione di “pace” riportata nel dizionario italiano: ovvero “una situazione contraria allo stato di guerra, garantita dal rispetto dell’idea di interdipendenza nei rapporti internazionali, e caratterizzata, all’interno di uno stesso stato, dal normale e fruttuoso svolgimento della vita politica, economica, sociale e culturale” e non improntata alla concordia ed all’armonia di intenti. All’oggi, essa è la sola pace possibile tra israeliani e palestinesi e l’unica via da percorrere.

Tuttavia Peres non è riuscito nel suo intento di lasciare alle nuove generazioni un Israele in cui le condizioni per la pace fredda fossero possibili. Quando nel 1967 appoggiò la costruzione delle prime colonie oltre la Linea Verde secondo il “piano Allon” -ovvero per costruire una serie di avamposti nei Territori occupati che potessero assicurare ad Israele la sicurezza e il controllo dello spazio aereo- e nel 1974 si spinse fino ad appoggiare silentemente il movimento fondamentalista ebraico Gush Emunim e il lancio delle cosiddette “colonie ideologiche” in Giudea e Samaria -ovvero oltre la Linea Verde, negli attuali Territori occupati- il suo calcolo, quello di strumentalizzare la colonizzazione spontanea come merce di scambio in futuri accordi di pace, si rivelò sbagliato. Oggi è impossibile pensare di rimuovere tutte le colonie per vedere nascere uno Stato palestinese che, oltre ad un riconoscimento formale, possa diventare una realtà politica economicamente e territorialmente sostenibile.

L’eredità di Peres è, dunque, controversa, andando a coincidere con quella di un partito laburista israeliano che ha creato le condizioni attuali che rendono impossibile la soluzione dei due Stati, senza per altro riuscire a proporre un’altra alternativa. O forse l’alternativa taciuta per la “sinistra” israeliana rimane quella ventilata dallo stesso Peres in un congresso laburista nel lontano 1972: “Gli Arabi dei Territori occupati potranno vivere come una minoranza investita di pari diritti in un Israele allargato. (…) Sono fiero che migliaia di arabi lavorino già in Israele, in molte professioni di cui sono capaci… e tutto questo con Gerusalemme unita e la presenza di un insediamento ad Hebron e di altri nella valle del Giordano e nella piana di Rafiah” (Verbale del Segretariato del Partito laburista, 1972, riportato in S. Gorenberg, Occupied Territories. The untold story of Israel’settlements, I.B. Tauris, 2007: 242).

* ricercatrice Unimed

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