Stay hungry, stay foolish. Ma anche no. Io Steve Jobs non l’ho mai potuto sopportare. Tante chiacchiere e troppo girare attorno alla sostanza delle cose. E poi quel fastidioso aspetto motivazionale come se fossimo tutte bambocci addormentati improvvisamente pungolati dal guru. E ancora: dopo il Novecento di lacrime e sangue anche solo per conquistare un tic tic di un telegrafo, richiamare chissà quale fame, chissà quale lotta per un gingillo, un aggeggio, un affarino che costa un occhio della testa. Ecco, così apparentemente, superficialmente, lontano dal nucleo del discorso, a me che mentalmente e tecnologicamente sono del giurassico, Steve non è mai stato simpatico. Anzi, non l’ho mai digerito.

Poi accade l’imponderabile. Il crack, il crash, la crepa, un vetro che si infrange irreparabilmente. Non è uno spot pubblicitario ma un fatto. Un accadimento reale, un bisogno che improvvisamente si ri-crea e una domanda aggiornata che si riformula. Complice un iPhone di un paio d’anni fa, tutto lì, solo soletto, che mi guarda da una vetrinetta in cui campeggiano ultimi modelli di concorrenti. Steve sono arrivato a casa tua così. Ho ripreso in mano l’epopea del tua mela morsicata fin del (finto) garage in cui avresti iniziato con Steve Wozniak a ideare la Apple, e in un attimo, agguantando uno smartphone grigio e nero di nemmeno dieci centimetri per due, ho rivissuto l’era della NeXT, poi quella dell’iMac, fino all’ultima frontiera commerciale e creativa (tua) dello smartphone.

Ebbene, eccoci qua, e non vorrei essere vagamente pornografo, con l’aggeggio in mano, da cui non riesco più a staccarmi. Molti esperti di informatica e di design, di moda e telefonia mobile, hanno provato a spiegare cosa ci fosse dentro a quel cervelletto in ebollizione continua, dietro a quella tattica di attacco e fuga, di piatto da far saltare e di cupi silenzi ed isolamenti. Davvero, nessuno è mai stato in grado di dirlo.

Biografie, racconti, interviste di amici, compagni e traditori. Poi pure due film che non sono mai riuscito ad apprezzare: Jobs (2013) di Joshua Michael Stern con Ashton Kutcher che ti interpreta in modo più nervoso e febbrile, più doloroso e vivo; l’altro, Steve Jobs (2015) di Danny Boyle con Michael Fassbender che ti rifà più morbido e sinuoso, comodo nell’immagine da vestiario che ha segnato la tua silhouette: dolcevita nero, jeans e scarpe da tennis bianche. Girano attorno alla realtà dei fatti e del tuo pensiero pure i cineasti: ti fanno arrivista e vendicativo, scaltro e furbetto, infingardo e geniale, padre snaturato e uomo evanescente. Non riescono ad inquadrarti, provano a mitizzare l’icona, poi quando non ci riescono mitizzano le doti persuasive della tua collaboratrice più vicina (la Winslet in Steve Jobs) o la riffa finanziaria di avvoltoi attorno a te (Jobs).

Nessuno però riesce a rintracciare quella robusta radice che sta alla base della tua rivoluzione consumistica, nell’evo in cui si consumano scarpe come spaghetti, chiodi come sandwich, in un tutto degenerato, spersonalizzato e piatto. Quell’oggettino che ho comprato per caso, quasi a modello di sfida, per dirti che eri un pallone gonfiato e che la tua era tutta fuffa retorica da sogno americano, ecco quell’affare lì mi ha fatto capire che nella tua creazione c’è qualcosa di molto antico, una radice lontana, il senso del primate per le cose, un concetto che ha una lunga infinita eterna linea dell’essere umano che mi ricorda il Kubrick di 2001 Odissea nello spazio.

Quell’iPhone, quello piccino, non le padelle enormi che Tim Cook signore elegante e raffinato, impegnato e serio, ha cominciato a smerciare dopo la tua dipartita, appartengono all’origine della specie perché si tengono in mano in modo “naturale” come le scimmie di 2001 brandivano le ossa nella celebre sequenza della lotta tra primati. Quell’osso che vola in aria e nel film del maestro assoluto di cinema diventa astronave, con te è diventato uno smartphone.

Mi rimane sempre in mano, non mi cade mai, la presa basilare dello scimmione, delle dita prensili che piegano le due falangi e stringono senza mollare mai. Mi ci sono voluti cinque anni da quando sei crepato lottando con una bestia di cancro al pancreas, che è bastardo come nessun demone dell’aldilà, per capire cos’avevi creato. Altro che mode, colori, sfumature, funzioni, che ovviamente aprono ad un discorso infinito sul relativismo estetico e culturale. Il tuo smartphone, versione classica, è l’oggetto finale dell’evoluzione tecnologica della specie.

Meglio tardi che mai. Grazie Steve.

Articolo Precedente

Amanda Knox, il documentario di Netflix: il mea culpa dei media Usa dopo il lungo percorso giudiziario italiano

next
Articolo Successivo

Isis, il nuovo libro di Formigli: “Il falso nemico? Tollerato più che combattuto. Un cancro diffuso in Europa”

next