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Terrorismo, la guerra al fondamentalismo islamico sulla pelle degli arabi

Terrorismo, la guerra al fondamentalismo islamico sulla pelle degli arabi
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La “guerra al terrore” non finirà mai. Dal 2001 si bombarda; si stringono alleanze temporanee fra nemici giurati in nome di obbiettivi a breve termine, mentre le vittime, nei paesi arabi, sono a centinaia di migliaia. Sono queste morti a scandire il tempo che passa in una lotta contro un nemico invisibile, spesso di comodo.

Essere giovani in alcuni paesi arabi significa non conoscere alternativa alla guerra o all’incertezza della vita, nel senso che non sai se, girando un angolo, un’autobomba esploderà. Baghdad è un esempio: le giornate sono segnate dal terribile boato delle esplosioni. Hamed Saadawi, in Frankenstein a Baghadad, romanzo tradotto da Barbara Teresi e pubblicato da E/O editore, ha descritto, utilizzando il realismo magico, la capitale irachena e ha provato a dare giustizia, attraverso una misteriosa figura che prova a riportarla in un paese dove pare latitare, a tutte le vittime innocenti che muoiono a causa degli attentati.

Non possiamo che rintracciare l’inizio dell’instabilità irachena nella disastrosa gestione americana dell’Iraq post Saddam Hussein: lo smantellamento dell’esercito e degli apparati di sicurezza; il sostegno agli sciiti che hanno marginalizzato i sunniti, al posto di costruire un governo di unità nazionale per garantire la transizione; l’autonomia dei curdi che oggi rivendicano pezzi del territorio nazionale, “invogliando” gli arabi a lasciare alcune città e zone, portando avanti quella pulizia etnica di cui loro stessi (i curdi) furono vittime.

L’Isis diventa una grande occasione per tutti. Da mesi le milizia sciite, sunnite, l’esercito iracheno e i Peshmerga curdi sono alle porte di Mosul ma aspettano a entrare: devono prima accordarsi per il dopo. Nessuno vuole combattere senza aver prima pensato alla ricompensa. A Fallujah si assiste allo scenario post Isis, raccontato ieri su questo giornale, dove gli sfollati vengono reinsediati anche se le condizioni sanitarie e dei servizi basilari sono pessime. Per chi ha vinto contano i gesti, specialmente se possono diventare simboli.

In Siria, l’Isis – il nuovo obbiettivo della guerra al terrore – pare non retrocedere anche se ci sono decine di stati, potenze militari mondiali, a bombardarlo. Nel settembre del 2015 la Russia dichiarò ufficialmente di intervenire in Siria contro lo Stato Islamico. Cominciò da subito a bombardare i ribelli e a compiere raid contro le città controllate da questi. Erdogan, in nome della lotta all’Isis, grazie al suo riavvicinamento con la Russia e di conseguenza con Damasco, è entrato nel nord della Siria per combattere l’Ypg, non lo Stato Islamico.

Ma anche i curdi dell’Ypg hanno le loro colpe. Hanno accettato il sostegno degli americani, senza comprendere a pieno il compromesso che avevano siglato. Hanno portato avanti una repressione totale del dissenso degli altri curdi: quelli che non sono d’accordo con loro, come molti politici che si richiamavano al consiglio nazionale curdo siriano o giornalisti indipendenti. Poi c’è l’Arabia Saudita e gli altri paesi del Golfo. Anche loro formalmente contro lo Stato Islamico, pur avendolo finanziato.

L’Isis non verrà sconfitto, cambierà nome. Il fondamentalismo islamico continuerà a fare proseliti perché non si è ancora compreso che questo movimento, nichilista, è il segnale di un malessere irrisolto che si alimenta con il pessimismo dilagante dei giovani arabi verso il futuro; delle questioni irrisolte fra “Occidente” e il resto del mondo; dell’ipocrisia della politica estera e del mancato riconoscimento dei danni che la guerra al terrore sta provocando.

Poi, finché penseremo che gli altri, in questo caso gli arabi, non possono aspirare a nient’altro che non siano i regimi autoritari, responsabili quanto l’Occidente del disastro mediorientale, o il fondamentalismo continueremo a lottare, costruendo muri che non ci proteggeranno, contro un mulino a vento. Hamid Dabashi, accademico inglese, di origini iraniane, ultimamente ha scritto un libro dal titolo eloquente Can non-europeans think? (I non europei possono pensare?), Zed Books. Se la risposta è si, allora è meglio cominciare a dialogare con loro per trovare soluzioni a questioni oggi irrisolte.

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