“Le nostre città sono la nostra storia, tanto più in quei piccoli borghi che rappresentano il cuore dell’Italia. La gente che vive lì va ascoltata, il governo non forzerà la mano”, dice Graziano Delrio, ministro delle Infrastrutture, appena uscito dal Consiglio dei Ministri che ha adottato un decreto che dichiara lo stato di emergenza e stanzia i primi cinquanta milioni per il sisma che si è abbattuto su Lazio e Marche.

Si scava, ad Amatrice, Arquata del Tronto, Accumoli e in gran parte delle frazioni che si trovano nelle vicinanze. Le persone che ci abitavano sono tenaci. Sono i “connazionali dei territori terremotati” nei confronti dei quali lo Stato ha “un impegno morale”, perché “quei borghi devono avere non solo un ricordo ma anche un futuro”, sostiene Matteo Renzi. C’è “dolore” e “emozione”, come è naturale che sia. Già, perché ci sono i morti, i feriti. Insomma ci sono le persone. A loro si sta provvedendo, al meglio. Come sempre.

Ma poi ci sono i luoghi, in gran parte distrutti. Luoghi che ci si accorge di non conoscere. Troppo spesso, se non in maniera superficiale. Certo in maniera inadeguata alla loro rilevanza. Così la ricostruzione, è probabile, ci sarà. Avverrà senza delocalizzare, come avvenuto a L’Aquila. Senza creare aggregati “artificiali”, aggiunte mortificanti. Con i centri, il loro nucleo, abbandonati, per costruire ai margini. Questo è più che probabile non accadrà ad Amatrice e Accumoli e forse neppure ad Arquata, centri più importanti. Il rischio è che invece si verifichi nelle frazioni, come Capodacqua oppure Spelonga, Illica o Pescara del Tronto. Se ciò si verificasse sarebbe un errore. Perché si perderebbero davvero parti d’Italia straordinarie. Uniche. Di certo non opere d’arte. Ma comunque testimonianze imperdibili di cultura urbanistica, di capacità tecniche. In questo lo Stato dovrà essere davvero adoperarsi. Nel fornire agli abitanti di quei piccoli borghi gli strumenti per non allontanarsene.

Dubitare della voglia di rinascita degli abitanti è impossibile. Ma è indispensabile che non siano lasciati soli. Come sempre, sono necessarie le risorse, ma lo sono ancora di più i progetti, le idee complessive. Ancora di più, la feroce capacità di fermarsi solo quando ogni cosa tornerà al suo posto, o quasi. Cioè fino a quando i reticoli delle strade delimitate dagli edifici saranno ricostruiti. Com’erano. La circostanza che in quel lembo di terra di confine tra le province di Rieti e Ascoli Piceno, ci siano anche autentiche opere d’arte, non facilita il compito.

Le prime stime del Mibact, risultato delle ricognizioni dei carabinieri del Comando per la tutela dei beni culturali, riferiscono che sono 293 i beni culturali colpiti dal sisma, solo nella zona più ristretta e di questi 50 risultano gravemente danneggiati o crollati. Ma “è certamente un numero destinato a salire vista la vastità della zona colpita dal sisma”, sostiene il ministro Franceschini. Bisogna verificare. E’ necessario arrivarci in paesi e frazioni. E non é per niente facile. Certo, ci sono la Basilica di S. Francesco, la chiesa di Sant’Agostino e quelle di S. Giovanni e S. Giuseppe, il Museo Civico, la Porta S. Francesco, ad Amatrice. Ad Arquata la chiesa della Santissima Annunziata, la Porta di Sant’Agata e la Rocca. Ad Accumoli, la Torre Civica, i Palazzi Del Guasto, Marini e Cappello. Ma c’è anche moltissimo altro. Verrebbe da dire, soprattutto. Nel borgo di Arquata c’è la chiesa e il convento di S. Francesco, a Spelonga la chiesa di Sant’Agata e a Pescara del Tronto la chiesa di Santa Croce. E non è finita.

La ricostruzione, dove necessario, è auspicabile si faccia per anastilosi, cioè con i pezzi originali rimessi al loro posto, uno per uno. Come per le esperienze, vincenti, del Duomo di Venzone e quello di Gemona, in Friuli. Ma in quegli edifici, essi stessi straordinarie architetture, si conservano affreschi, bassorilievi, sculture e oggetti di enorme valore storico-artistico, perlopiù poco noti, a parte casi eccezionali. Anche in questo caso la possibilità che gli sforzi si concentrino sui monumenti più “celebri” esiste. Il rischio che tanti materiali mobili, anche terminata l’emergenza, finiscano per rimanere nei luoghi nei quali sono stati ricoverati, non è poi così remota.

“Signor Ministro, sono perfettamente consapevole che la mia chiesa non ha il valore artistico e culturale della Basilica di San Francesco in Assisi; tuttavia, o tutti i beni artistici ed architettonici vanno tutelati, oppure se ne svincolino i meno ‘pregevoli’ dalla ‘tutela’ delle Sovrintendenze”, scriveva nel gennaio 1999 Don Vitaliano della Sala, parroco a Sant’Angelo a Scala, piccolo comune dell’avellinese colpito dal sisma del 1980. “Non so quanto tempo dei miei sei anni di ministero parrocchiale è stato speso nella stesura di lettere di sollecito, pellegrinaggi presso gli Enti inutilmente deputati alla tutela dei beni artistici e alla ricostruzione post sismica”. I “connazionali dei territori terremotati”, come li ha chiamati Renzi, sperano di non essere costretti a fare come Don Vitaliano della Sala. Perché già troppi sismi hanno lasciato macerie lì dove erano e pezzi di patrimonio in abbandono. Questa volta è molto più di “un impegno morale”.

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