Il primo ricordo vivo che ho dei Metallica è relativo alla première del video della tanto vituperata “St. Anger” ed è un’immagine di me che risale a più di 10 anni fa, quando seduto sul divano di casa dei miei attendevo con ansia di verificare se il clamore sgolato dal vj di turno valesse la metà della canzone che ero sul punto di ascoltare, anzi vedere.

Ecco, prendiamo e riavvolgiamo il nastro da capo, perché preferisco parlare con il corpo e l’anima di quello che sono diventato dopo, ovvero un loro fan nonostante quello che, appunto, mi toccò sentire. A James Hatfield gli auguri li faccio (idealmente) senza dovergli rimproverare niente, avendo abbandonato da tempo il partito di quelli che a lui e alla sua compagine sono arrivati a rimproverare le cose più disparate, senza mai pensare minimamente alla più semplice delle spiegazioni: e cioè che un gruppo travolto dal successo, dopo avere scritto almeno 5 delle pietre miliari del rock moderno, potesse avere perso la voglia e l’ispirazione senza per questo mancare di rispetto a nessuno.

I Metallica – assieme ad altri illustri colleghi – hanno dettato le coordinate del metal moderno, portandolo a un livello di fama e riconoscibilità che senza le loro pur clamorose scivolate non sarebbe mai arrivato a essere tale. Certo che ne è passato di tempo da quando un giovane e robusto chitarrista non ancora cantante, alle prese un po’ con Bach e un po’ con le cover dei Rush, decise di unirsi a quelli che (fatta eccezione per la permanenza lampo di Dave Mustaine, la scomparsa prematura del genio Cliff Burton e la defenestrazione del sostituto illustre Jason Newsted) sarebbero rimasti al suo fianco per oltre 30 anni, ovvero fino ai giorni nostri.

Nel mezzo, tante scelte controcorrente che a prescindere da quello che alle persone piaccia pensare non hanno giovato in primis ai tanto odiati Metallica: a fasi alterne comunque sempre su gli scudi ma costretti a fare retromarcia prima su Napster, poi sul taglio di capelli e – non meno – una serie di pubblicazioni e gadget se non discutibili comunque distanti anni luce dall’idea che i fan della prima ora amavano (amano) conservare dei loro beniamini e della musica che li aveva eletti a pieno titolo eroi contemporanei.

Un dibattito, quasi un tormento che ha corroso dall’interno i singoli membri di quella che assieme a poche altre eccezioni rimane comunque una delle più grandi band del mondo: se non altro perché quella che poteva essere la concorrenza s’è data alla macchia ormai da tempo immemore. Il tutto è ben reso dal documentario Some Kind Of Monster, dove complici le ormai ingestibili crisi da astinenza da alcol, è proprio il nostro James a chiedersi quanto possa valere ancora la pena tirare la carretta di un gruppo a quel punto ridotto allo scatafascio e senza alcuna idea artistica in tasca necessaria per risalire la lunga china.

Usciti dagli anni ’80 e sopravvissuti ai ’90 abbastanza bene da diventare schifosamente ricchi, i Metallica sono arrivati a vivere i tempi della musica liquida puliti quanto acciaccati, concedendosi più del tempo necessario tra un disco e l’altro e consegnando alla storia un ultimo (finora) album – Death Magnetic – ispirato quanto colpevole di seguire il noioso refrain cantato da quelli che “tanto era meglio prima”, con l’unica responsabilità loro imputabile di avere troppo rispetto per il seguito accumulato in più di 1/4 di secolo finendo per invecchiare – sempre come il mio, il vostro James – con lo sguardo rivolto al passato: incapaci a sufficienza di dare valore invece a un presente migliore di quanto non sia di moda lasciar credere e propagandare. E oggi, pur con tutti i dubbi e le delusioni del caso, mi dico ancora una volta contento che quel 3 agosto del 1963 a vedere la luce fu un maschio. Che tanto da qui al prossimo capitolo c’è tutto il tempo per farsela prendere a bene. Oppure no.

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